di Renato Venturelli.
Costumista, tagliatore, storico dell’abito e della sartoria, dove è uno dei massimi esperti internazionali. Luca Costigliolo ha cominciato come costumista al Globe Theatre londinese quando aveva vent’anni, ed è sempre rimasto fedele al suo sogno adolescenziale: quello di rifare gli abiti d’epoca così come erano nella realtà, con assoluta cura filologica. Fino ad imporsi a teatro, nell’insegnamento, nel mondo accademico, e da qualche tempo anche al cinema. Quel cinema da cui tutto era cominciato, trent’anni fa.
Via col vento e Il Gattopardo.
«Fin da bambino cominciai a essere ossessionato dagli abiti antichi e in particolare da quelli dell’800. Avevo visto Via col vento e mi aveva folgorato, insieme alle illustrazioni meravigliose che trovavo nella collezione delle Fiabe dei Fratelli Fabbri. Quindi vidi Il Gattopardo… E a quel punto cominciai non solo a rivederlo in continuazione, ma anche a fare ricerche per capire come erano quei vestiti nella realtà, guardando film e consultando libri. All’epoca non c’era internet, che oggi permette di avere immagini di ogni tipo, ma ogni abito raffigurato dovevi andartelo a cercare e memorizzarlo in ogni dettaglio. All’epoca mi ero spostato a vivere con la mia famiglia dal quartiere genovese di San Gottardo, dove ero nato, a Montoggio, il paese dove andavamo già in vacanza d’estate e dove ho passato poi la mia adolescenza. Ma già a dodici anni prendevo la corriera per andare a Genova, o per frequentare una libreria di Molassana dove trovare i libri che cercavo.
Confrontando i quadri dell’epoca con i film, vedevo però che molte cose non coincidevano, perché i film cercavano sempre di attualizzare un po’ gli abiti, di inserire elementi più vicini ai gusti del pubblico del periodo in cui erano stati girati. E così alla passione per gli abiti in sé si affiancò quella storica, per capire come effettivamente erano nella realtà dei secoli precedenti. Da bambino, a Montoggio, non era facile. Ma a tredici anni scoprii che a Torriglia avrebbero fatto una mostra sul “corredo della nonna”, nell’ambito di una festa di paese. Ho costretto mia madre a portarmici e per la prima volta vidi degli abiti veri di fine ‘800. Fino ad allora ero abituato a vedere la realtà interpretata dal cinema, a Torriglia mi sono finalmente trovato davanti a qualcosa che corrispondeva al modo in cui quei vestiti erano rappresentati nei dipinti, abiti che modificavano la forma del corpo.
Da lì si sviluppò l’ossessione. Ho girato le soffitte di Montoggio, rovistato nei bauli delle famiglie. E mi misi a cercare di riprodurre quello che vedevo. Mi aiutava una signora anziana che amava il cucito, moglie di un colonnello. A questa donna devo molto, fu lei a mettermi per la prima volta l’ago in mano. Da quel momento ho cercato di rifare gli abiti dell’800, tentando di riprodurre anche il modo in cui erano cuciti.
Cominciai ad andare al Carnevale di Venezia. E facevo i costumi per gli spettacoli di paese a Montoggio: le prove si tenevano all’interno dell’ex-cinema, che avevano chiuso proprio quando ero nato. In quella chiesa sconsacrata c’erano ancora le sedie del vecchio cinema, era tutto abbandonato ma ancora quasi intatto.
Nel frattempo mi ero iscritto al liceo Barabino di Genova, e ci fu un nuovo passo nella formazione, in quanto gli insegnanti erano molto interessati alle mie ricerche e una di loro ci faceva allestire spettacoli teatrali in modo già professionale, anche se erano ovviamente studenteschi. Cucivo gli abiti per gli spettacoli e più tardi, lavorando a Londra, ho avuto conferma di quanto quest’insegnante, Laura Iadeluca, sia stata importante nella mia formazione: le devo molto».
Londra.
«Dopo la maturità e l’anno integrativo, nel 1997 sono andato a Londra, e al mercatino di Portobello trovavo abiti che non potevo permettermi di acquistare, ma che potevo vedere da vicino, nei dettagli. E decisi di fermarmi a Londra. Per mantenermi, iniziai a lavorare in un salone di parrucchiere a Covent Garden. Facevo solo lo sciampista, ma eravamo vicini alla Royal Opera House e tra i clienti c’erano cantanti lirici, che spesso mi regalavano biglietti per gli spettacoli, mi accoglievano nei camerini. Io vestivo gli abiti femminili dell’800 e la mia idea fissa era sempre quella di arrivare a fare costumi professionali, ma come volevo io. Nessuno però mi assumeva, perché dicevano che queste ricostruzioni filologiche non si potevano fare.
Nel frattempo, continuavo ad andare ai mercatini. Non c’erano ancora i telefonini che facevano le foto, per cui girando per Portobello dovevo studiare attentamente i vestiti e poi andare a casa e cercare subito di riprodurli, finché la memoria era fresca. A Portobello mi notò un’anziana signora che aveva una bancarella in cui vendeva abbigliamento antico di origini contadine e oggetti di quel mondo, ma rimase colpita dagli abiti che indossavo, e che erano quelli che mi facevo io. Mi regalava bottoni d’epoca, oppure qualche vestito antico quando le capitava. Tra l’altro, non era una persona qualunque, era stata anche la madrina di Ralph Fiennes. E per me diventò una specie di nonna.
A quel punto ci fu la svolta decisiva, perché un giorno mi disse che c’era il progetto di ricostruire il Globe Theatre di Shakespeare, e intendevano rifare tutto come era all’epoca, compresi gli abiti degli spettacoli. Andai a fare un colloquio e a vent’anni fui assunto al Globe! Mi assunse la costumista Jenny Tiramani, altra persona cui devo molto, perché mi diede fiducia. E finalmente potevo fare gli abiti filologici, come volevo io, nel modo più dettagliato possibile. A Londra non era facile trovare i materiali, anche perché rispetto all’Italia s’era persa la tradizione del cucire casalingo. Così mi facevo mandare molte cose dall’Italia. I fili di seta li trovava mia madre nella merceria di Montoggio! E altri materiali me li facevo comunque inviare dall’Italia dove erano ancora utilizzati nelle case, mentre in Inghilterra erano ormai introvabili.
La prima stagione al Globe la feci come sarto, ma nel frattempo il teatro mi diede subito la possibilità di andare nei musei di tutto il mondo: potevo non solo vedere gli abiti esposti, ma anche toccarli, esaminarli».
Festival dei Due Mondi.
«Dopo qualche mese al Globe, arrivò un regista-costumista-scenografo che aveva rapporti con il Festival dei Due Mondi di Spoleto e mi mise in contatto con Gian Carlo Menotti. E Menotti mi fece subito capo responsabile della sartoria. Avevo in mano tutta la gestione dei costumi del festival. Era un incarico da non far dormire la notte, ma mi ci gettai con l’incoscienza dei vent’anni. Durante l’anno lavoravo al Globe, poi d’estate andavo a Spoleto per qualche mese. Arrivavano artisti, opere, spettacoli da tutto il mondo, fu un’esperienza eccezionale. Durò fino alla morte di Menotti, nel 2007. Al Globe, invece, dopo un anno come sarto, ho fatto due anni come tagliatore di costumi, quindi sono diventato costumista, iniziando a 23-24 anni a firmare da costumista gli abiti del Globe. In quel periodo, anche la compagnia di attori era organizzata come all’epoca di Shakespeare, e nei primi anni c’erano solo attori uomini. Firmando per il Globe, il mio lavoro ottenne visibilità. Nessuno aveva ancora cercato di fare abiti d’epoca con quei dettagli. E il mio rapporto con Genova continuava ad essere fondamentale: del resto Genova nel Rinascimento era stata la sartoria d’Europa. I velluti li facevo venire da Zoagli. In un contesto inglese era importante venire dall’Italia, dove l’abbigliamento fa parte della nostra cultura».
Piero Tosi.
«Ovviamente ero ossessionato anche dal lavoro di Visconti e del suo costumista Piero Tosi, che era stato il primo a cercare di ricostruire abiti d’epoca e ha cambiato il modo di fare costumi per il cinema in tutto il mondo. Avevo il culto di Piero Tosi, ma siccome apparteneva a generazioni precedenti pensavo che fosse morto… Invece era vivo e insegnava al Centro Sperimentale di Roma!
Mentre stavo facendo Molto rumore per nulla al Globe, ricevetti la telefonata di un costumista che era allievo di Tosi e voleva farmi da assistente. E mi disse: dovete conoscervi! Allora presi la mia valigetta e andai a far vedere a Tosi i costumi che stavo facendo. Entusiasta, Tosi mi propose di insegnare con lui al Centro Sperimentale di Roma, e a 24 anni iniziai a insegnare al CSC, facendo ogni anno uno o due seminari sulle tecniche originali dell’epoca. Cominciai a diventare il braccio destro di Tosi, formando i costumisti italiani di tutte le ultime generazioni: e all’inizio si trattava di allievi che avevano la mia età! Abbiamo creato cose bellissime: adesso sono diciannove anni che formo i nuovi costumisti italiani. Nel frattempo, grandi allievi di Tosi come Milena Canonero, Gabriella Pescucci, Maurizio Millenotti mi hanno fatto lavorare come tagliatore, perché conoscevo tecniche d’epoca che nessun altro conosceva. E a Tosi sono rimasto legato fino alla fine: mentre moriva, a tenergli la mano c’ero io.
Nel frattempo andavo avanti al Globe, dove Mark Rylance era direttore e attore, anche in ruoli femminili secondo tradizione. All’inizio eravamo criticati perché ritenevano che il nostro lavoro fosse una specie di imbalsamazione museale, senza capire che invece era un lavoro di ricerca. Poi ci fu la rappresentazione della Dodicesima notte proprio alla Middle Temple Hall, il palazzo dei magistrati dove Shakespeare aveva fatto la prima: abbiamo rifatto lo stesso spettacolo, nello stesso posto, con Mark Rylance nella parte di Olivia e Eddie Redmayne in quello di Viola che si scambiavano i ruoli, ed era uno spettacolo così bello che cessarono le critiche».
Gli studi storici.
«A quel punto, però, si sono aperte anche le strade del mondo accademico. Al Victoria Art Museum ci hanno chiesto di pubblicare le ricerche che avevamo fatto, e noi abbiamo ulteriormente approfondito la ricerca scientifica, pubblicando con altri colleghi tutto quello che eravamo riusciti a sapere su come erano stati fatti questi abiti. In precedenza ci aveva già provato Janet Arnold, lasciando il lavoro non pubblicato e i soldi per aprire una scuola specifica, The School of Historical Dress, del cui team faccio parte, dove vengono costumisti, restauratori, direttori di musei.
I libri di Janet Arnold sono la bibbia dei costumisti di tutto il mondo: noi li abbiamo integrati con analisi scientifiche aggiornate, raggi X… Di ogni passaggio facciamo il disegno, descrivendolo. Si tratta di manuali che hanno ormai un uso accademico. E oggi, oltre a insegnare al Centro Sperimentale e a Londra, collaboro con il Centro Conservazione e Restauro di Venaria Reale a Torino, lavorando anche con i restauratori.
Quando ho iniziato, secondo i teatri il mio lavoro era museo, mentre per i musei era teatro… Se avessi dato retta, sarei diventato un costumista qualsiasi: invece ho tenuto duro».
Il cinema.
«Al cinema, ho lavorato per anni come tagliatore, adesso ho cominciato a fare film come costumista, con Una femmina e Spaccaossa che per me sono due lavori molto importanti. Tutti si aspettavano che avrei fatto film storici, per me è una sfida fare il moderno anziché l’antico. C’è innanzitutto il piacere di raccontare una storia attraverso i vestiti, perché vestire significa contribuire a costruire i personaggi. Da costumista, fare gli abiti è cercare di entrare nella testa di un personaggio, pensare come lui e definirlo attraverso i vestiti. Non è che uno fa un film moderno guardando i cataloghi di moda: bisogna guardarsi intorno, ispirandosi alla realtà. A volte ho fatto dei collegamenti con persone che ho conosciuto.
Per prima cosa parlo col regista per avere la visione del personaggio, chi è, da dove viene: devo avere informazioni che vanno al di là della storia raccontata. Poi parlo con l’attore per capire come lui vuole interpretarlo. Quindi formo le mie idee, le espongo al regista e ne discuto con l’attore, ascolto le sue opinioni. Cerco sempre di coinvolgerlo, gli spiego il significato del colore, del modo di indossare. Non è una cosa obbligatoria da farsi, ma per me è un rapporto fondamentale. Con gli attori c’è un rapporto di intimità. Siamo sempre con le mani addosso agli attori, che sentono il nostro lavoro sulla loro pelle, soprattutto quando si tratta di attività più lunghe. Gli attori devono sentirsi addosso gli abiti giusti, e vedo che apprezzano molto quest’attenzione.
E naturalmente parlo anche con gli altri, perché è dal clima artistico che si stabilisce tra regista, scenografo, costumista, direttore della fotografia che si prendono certe decisioni. Ad esempio, in Spaccaossa, il regista e il direttore della fotografia Ciprì mi dicono che devono prevalere gli aspetti cupi, grigi, e mi comporto di conseguenza, anche se non è che per quello si aboliscono i colori».
Gomorra.
«E’ vero, sono nei ringraziamenti di Gomorra. Stiamo parlando di quindici anni fa. Quando Matteo Garrone ha scritto la sceneggiatura, una parte del racconto riguardava il sarto napoletano. Garrone era un grande fan di Piero Tosi – come del resto tutti – e voleva qualcuno che sapesse fare il sarto ma avesse anche cultura per scegliere i dialoghi, usare il linguaggio professionale giusto. Tosi mi mise in contatto con lui: di giorno lavoravo a un balletto con Millenotti, di notte andavo a casa di Garrone e degli sceneggiatori per aiutarli nei dialoghi. Abbiamo fatto un lavoro molto ampio, che poi come spesso succede non è apparso interamente nel film: ma è stata una collaborazione molto piacevole».
I fratelli Sisters
«Nei Fratelli Sisters, di Jacques Audiard, i costumi sono della Canonero. Li ho tagliati tutti io. Quello è stato un lavoro duro, perché gli attori erano tanti. Per la camicia rossa di Joaquim Phoenix ho dovuto fare 24 camicie rosse, tutte tagliate a mano. Certo, c’è una grande produzione, il piacere di lavorare con certi personaggi come Rutger Hauer. E’ l’unica volta che ho lavorato con Milena, che voleva ci fosse una visione anni ’70 dei costumi d’epoca: è un’artista molto poliedrica, anche lei cerca di rifare la realtà, però mettendoci anche un po’ d’invenzione. E’ stato massacrante, perché bisognava adattarsi alle condizioni del set: la maggior parte dei costumi li ho fatti in un capannone di lamiera nel deserto di Almeria, a 50 gradi, fra tarantole e scorpioni. Ho fatto a mano tutte le camicie, e nei primi piani si doveva vedere la cucitura fatta come all’epoca. Ho fatto anche un gilet di pitone! Mi hanno portato la pelle di un serpentone lunghissimo: non avevo mai tagliato una pelle di serpente in vita mia.
Io se faccio il tagliatore faccio sempre un taglio che è quello dell’epoca. Però non pretendo che questo sia l’unico modo di fare i costumi. L’importante è che l’abito sia bello e rapportato alla storia che si racconta. Non intendo certo imporre il mio modo filologico di fare costume: ciascuno può fare quello che vuole! E’ solo il modo mio, e non è nemmeno detto che un giorno non faccia cose storiche inventando: vedremo con i prossimi progetti. Certo, adesso spero di avere l’occasione di fare il costumista in un film storico, ma l’importante in un film è contribuire a raccontare storie che lascino qualcosa dentro».