di Massimo Lechi.
Film tra i più apprezzati di questo 2022, Godland dell’islandese Hlynur Pálmason ha fatto molto parlare di sé sin dalla presentazione a Cannes 75 – in Un Certain Regard, quando invece, secondo parte consistente della stampa, avrebbe meritato non solo il concorso principale ma addirittura la Palma d’oro.
Opera terza, dopo Winter Brothers (2017) e A White, White Day – Segreti nella nebbia (2019), di un regista e sceneggiatore ancora poco conosciuto in Italia ma già affermato nell’ambito dei festival cinematografici internazionali, Godland racconta con immagini di impressionante bellezza e una narrazione dal passo lento la dolorosa parabola di Lucas (Elliott Crosset Hove, strepitoso), un giovane e arrogante pastore luterano danese che, sul finire del Diciannovesimo secolo, intraprende un difficile viaggio in Islanda per andare a seguire i lavori di costruzione di una chiesa sulla costa. Partito in nave dalla Danimarca, che all’epoca aveva il controllo sull’isola, con un rudimentale apparecchio fotografico per documentare la propria avventura tra i “barbari”, Lucas inizia presto a soccombere psico-fisicamente dinnanzi alla forza oscura e misteriosa dell’antico paesaggio islandese – e ben poco sembra volerlo aiutare lo scostante Ragnar (Ingvar Eggert Sigurðsson, magnetico come sempre), guida locale che nei suoi confronti nutre da subito un misto di disgusto e attrazione. A vacillare è soprattutto la sua fede, incapace di sostenerlo lungo le tappe di una via crucis insensata, al termine della quale, non troppo a sorpresa, l’uomo moderno finirà letteralmente divorato dalla natura.
Al cinquantaseiesimo Karlovy Vary International Film Festival (1-9 luglio 2022) Godland è stato presentato con notevole successo nella sezione non competitiva Horizons.
Godland è, credo, una sorta di sintesi del cinema che hai prodotto finora. Ed è anche il tuo progetto più ambizioso, in ogni senso. Cosa ti ha spinto a imbarcarti in un’impresa così difficile?
Credo che la ragione principale sia stata il mio essere diviso tra Islanda e Danimarca. Sono nato e cresciuto in Islanda, ma in Danimarca ho studiato e ho avuto dei figli, prima di tornare indietro: ho sempre avuto due case. Sapevo di voler lavorare sulle differenze tra questi due paesi, sul loro rapporto, sulle loro incomprensioni. E sulla storia: noi islandesi abbiamo una storia molto complicata con la Danimarca.
Una storia molto poco conosciuta dal resto del mondo, se posso permettermi.
Esatto. E la ragione è dovuta al fatto che, per l’indipendenza dell’Islanda dalla Danimarca, non è stata versata una sola goccia di sangue. Non ci sono state carneficine o tragedie: l’Islanda ha ottenuto l’indipendenza attraverso uno scambio di lettere. Eppure sono vicende affascinanti, e nessuno le aveva ancora affrontate e raccontate.
In particolare al cinema.
È difficile farsi finanziare un film in costume se si è fuori dal circuito mainstream e si fa cinema d’autore.
Il tuo primo film, Winter Brothers, era danese. Il secondo, A White, White Day, islandese. Godland, invece, racchiude entrambe le tue anime.
Quella era la mia idea. Godland è sostanzialmente diviso in due a livello di struttura: c’è una prima parte con il viaggio, e una seconda ambientata in un’unica location naturale. Ma lo è anche dal punto di vista della nazionalità, perché è sia danese sia islandese: ha la bandiera rossa e la bandiera blu. E poi c’è il prete idealista e c’è l’uomo che vive a contatto con la natura… È tutto giocato sugli opposti. Ma ho cercato di non rappresentare questa dualità in maniera esageratamente drammatica – prendendo le parti degli islandesi o dei danesi, per esempio – perché mi piace dare allo spettatore la possibilità di sviluppare una propria interpretazione del film ed eventualmente identificarsi con chi vuole.
La storia del ritrovamento delle fotografie del prete è inventata di sana pianta oppure è ispirata a qualche personaggio reale?
No no, è finzione. È una cosa che ho iniziato a raccontare ai miei produttori, alla troupe e agli attori mentre scrivevo la sceneggiatura: “ci sono questi sette negativi impressi su lastre di vetro e li sto studiando per cercare di usarli come base per un racconto”. Più gliene parlavo e più vedevo che erano coinvolti, erano risucchiati in questa storia. Era affascinante vedere il modo in cui l’idea delle fotografie ritrovate in una scatola misteriosa li stimolava. Alle fine le ho inserite nel film.
Una bugia ai tuoi collaboratori è diventata l’antefatto del film.
Quando lavori su una storia abbastanza a lungo diventa reale. A un certo punto ti ci perdi, e non sei nemmeno più sicuro di cosa parla. Per me è come se il film decidesse da solo ciò che devo o non devo fare.
Godland è un’opera molto complessa, ma penso che la si possa analizzare soprattutto da tre punti di vista: quello del rapporto tra i personaggi, quello del rapporto tra i personaggi e il paesaggio islandese e quello del rapporto tra i personaggi e Dio.
Sì.
Partirei proprio dal rapporto con Dio, dall’elemento teologico-spirituale. Sul quale tu, a dire il vero, non insisti troppo.
Nella prima versione della sceneggiatura Lucas, il prete, parlava molto, e predicava molto. Ma dal momento in cui ho fatto i primi sopraluoghi, ho iniziato a tagliare, a togliere. Mi sono reso conto che se avessi eliminato tutti i suoi sermoni prima della scena nella chiesa, verso la fine, le sue parole avrebbero acquisito un vero significato. Volevo che lui dubitasse della propria fede, ma non volevo che il suo conflitto interiore risultasse troppo ovvio. È stato così anche per gli altri miei film: io non voglio che le cose appaiano scontate, voglio che “siano” e basta, voglio che la sensazione sia quella giusta. E infatti, cancellati i dialoghi sulla fede, ho trovato il giusto equilibrio.
I due protagonisti vivono la spiritualità in maniera molto diversa. Sono religioni inconciliabili, le loro.
Per Ragnar la religione è la natura, mentre per Lucas corrisponde a quello che ha imparato studiando da prete luterano in Danimarca. Lucas è nato nella fede luterana. Ragnar no, il suo è un altro Dio.
La fede di Lucas però è debolissima.
Sì, sin dall’inizio.
E sono un uomo – Ragnar – e il suo Dio – la natura, cioè il paesaggio islandese – a fargliela perdere durante il viaggio.
C’è un passaggio in un libro di uno scrittore che mi piace molto, Jón Kalman Stefánsson, che mi ha ispirato, soprattutto per la prima parte: “Eccoti qui, tutto solo, abbandonato da tutti tranne che da Dio. E Dio non esiste.” Mi sono sempre chiesto se Lucas sapesse di essere completamente solo o se fosse convinto di essere solo con Dio… Non penso di averlo ancora deciso con certezza. E comunque non l’ho mai detto al mio attore.
Il paradosso però è che Ragnar, che pure vive in simbiosi con il suo Dio, è morbosamente attratto da Lucas e dalla sua fede. Ma cos’è che lo attrae davvero? Il fatto che il prete sia uno straniero? Il fatto che sia un conquistatore, e dunque un individuo “superiore”?
Tutte queste cose insieme. E poi è anche una questione di ignoranza. Essere ignoranti significa non sapere, non conoscere: se vivi isolato come Ragnar, sono tante le cose che non hai mai visto e che non conosci. Ma la cosa più importante, secondo me, nel rapporto tra Ragnar e la religione è la paura di Dio, la paura di qualcosa che potrebbe esistere. All’epoca in cui è ambientato Godland, molti credevano perché era considerato normale credere, ma penso che ci fossero pure tante persone che sapevano di aver compiuto delle azioni inaccettabili e che dunque avevano paura che Dio esistesse davvero.
Eppure Lucas alla fine non è più in grado di incutere timore e rispetto. Perde completamente la sua aura.
Assolutamente. Anche la sua è ignoranza: un’ignoranza rivolta in un’altra direzione. Lui sbarca in Islanda come un idealista, quasi come un uomo moderno, perché ha un apparecchio fotografico. Ma quanto è forte la sua fede?
L’incontro tra Lucas e Ragnar è in realtà uno scontro. In tutti e tre i tuoi film i rapporti tra i personaggi sono molto violenti.
Ho iniziato a scrivere questi tre film nello stesso periodo. È come se fossero delle pentole in ebollizione, contengono una rabbia…
Un sentimento primordiale.
Sì, sentimenti primordiali molto elementari: non solo la rabbia, ma anche il desiderio e il rimpianto. Girando Godland, però, ho letteralmente sentito – e non so da dove sia venuta fuori questa sensazione – che avrei chiuso quel capitolo, se non altro per un po’.
E questo ci porta al rapporto con il paesaggio, un tema centrale nel tuo cinema. Quella di Godland è una natura veterotestamentaria, un anti-Eden minaccioso e desolato. È un paesaggio che respinge i personaggi, che li espelle.
Il paesaggio ci forma come esseri umani. E una volta – non devi nemmeno andare troppo in là – ci influenzava in maniera ancora più decisa. Nel passato, la morte era molto più vicina a noi di quanto non lo sia adesso. Oggi è un’entità quasi astratta, e per questo può diventare una specie di tabù.
I grandi conflitti interiori e, sullo sfondo, la natura maestosa e opprimente: è una costante dei tuoi film.
Leggendo romanzi, da giovane, mi colpiva come l’interiorità dei personaggi fosse spesso influenzata dall’ambiente esterno. Io ho sempre cercato di fare la stessa cosa nei miei film. Non so bene come ci riesco, ma mi aiuta sicuramente il fatto di lavorare su luoghi a cui sono emotivamente legato. In Godland non ci sono location, ma spazi: posti che conosco, che ho esplorato molte volte e che continuo a esplorare. Il cavallo morto che si vede marcire era di mio padre, ed è stato ripreso poco distante dalla sua fattoria. Il posto in cui il corpo di Lucas viene abbandonato è dove io e la mia famiglia andiamo a raccogliere funghi. In un certo senso si potrebbe dire che ho girato il film a casa mia, nel mio “quartiere”.
E così sviluppi un rapporto ancora più stretto con i luoghi.
La trasformazione della location in spazio è difficilissima da ottenere. Mentre scrivo vado sempre a visitare e rivisitare le location, fa parte del mio processo creativo – si può dire che io scriva per esse. Far sì che il personaggio funzioni all’interno del paesaggio: questo è ciò che cerco di ottenere.
Ma l’attaccamento non rischia di diventare un peso?
È un’ottima domanda… C’è una differenza tra privato e personale, e non credo che quella privata sia la sfera più adatta da coinvolgere quando si fa del cinema. Ma penso anche che lavorare con quello che conosci sia davvero interessante.