di Massimo Lechi.
Tra le molte proposte controverse in concorso nella sezione Proxima del cinquantaseiesimo Karlovy Vary International Film Festival (1-9 luglio 2022), Horseplay di Marco Berger è forse il titolo che più di tutti ha saputo spiazzare – ed esasperare – il pubblico.
Un film da prendere o lasciare, quello del quarantaquattrenne regista di Buenos Aires, un ambiziosissimo tentativo di ritratto generazionale di una gioventù argentina ricca e debosciata, aggressiva e spavalda a parole, ma in realtà terrorizzata dalla forza dei propri demoni interiori.
Protagonisti di Horseplay sono dieci ventenni di buona famiglia – tra i quali spiccano l’eterosessuale tormentato Nico (Bruno Giganti), il bisessuale disinvolto Andy (Agustín Machta) e l’omosessuale timido Poli (Franco de la Puente) – rifugiatisi in una villa di lusso fuori città durante le vacanze natalizie. Berger, da sempre affascinato dalle forme maschili e dalla possibilità di rappresentarle sullo schermo con assoluta libertà, immortala i loro corpi in inquadrature geometriche di implacabile nitore formale, mentre, a livello narrativo, di racconto, inizialmente sembra non essere intenzionato a offrire allo spettatore nient’altro che scherzi volgari, battute grossolane e situazioni equivoche e piuttosto ridicole.
Eppure la violenza e la tragedia sono dietro l’angolo. E con esse una critica spietata nei confronti di una società ancora irrigidita su posizioni profondamente maschiliste e omofobe e dei suoi figli degenerati.
Parlami di come ha preso forma il progetto di Horseplay. Da dove sei partito, innanzitutto?
Si tratta di un film speciale, completamente indipendente. L’idea è basata su un episodio di cronaca avvenuto in Argentina, sulla costa, nel 2020: l’omicidio di un ragazzo da parte di una squadra di rugby composta da figli dell’alta borghesia. Quella storia mi colpì molto all’epoca, e durante la pandemia, da solo, a casa, ho deciso di svilupparla. Anche se non avevo ancora una sceneggiatura, ho iniziato subito con il casting, in varie scuole di recitazione, facendo anche colloqui su Zoom.
Hai fatto il casting in lockdown e poi hai aspettato che venissero meno le restrizioni?
Sì, sapevo che avrei fatto un film con dieci ragazzi, dieci attori, quindi per prima cosa ho dovuto cercarli. Appena li ho trovati ho iniziato a incontrarli per conoscerli meglio e fare in modo che tutti fossero consapevoli del tipo di film che avremmo girato. Ci vedevamo ogni venerdì. Questo processo di conoscenza reciproca è durato un anno.
Non si conoscevano già?
No.
Ed erano – sono – tutti attori professionisti?
Sì, tutti quanti. Anche se alcuni di loro, prima che girassimo, erano ancora studenti e non avevano altri film alle spalle.
Nessuno ha avuto problemi con la sceneggiatura e con le scene di nudo?
No, perché per diversi mesi avevano avuto modo di frequentarsi e diventare amici, avevano sviluppato un rapporto di fiducia. E poi sono attori, quindi per natura sono molto aperti.
C’è un contrasto piuttosto evidente tra i tuoi interpreti, così liberi e disinvolti, e i loro personaggi, disinibiti in apparenza ma in realtà prigionieri delle convenzioni sociali e legati a una mentalità sessista, maschilista. Esageratamente maschilista, oserei direi. Nella prima parte tu spingi molto sul pedale dell’eccesso: la stupidità dei protagonisti e delle situazioni in cui li riprendi è a dir poco sconcertante.
Da sempre mi piace giocare con la psicologia del pubblico. Qui all’inizio gli mostro un film stupido con dei ragazzi seminudi che passano il tempo a farsi battute sporche e scherzacci. Anche se ci sono dei piccoli segnali dissonanti che anticipano il dramma, lo spettatore si perde, si sente smarrito in tutta questa trivialità, perché non capisce bene quale sia il senso della storia. Ed è a quel punto che faccio emergere la violenza, il lato oscuro.
Però non vai dritto alla tragedia. Dopo le lunghe sequenze di battute sceme e scherzi tra maschi su di giri, appunto, fai prendere al film e ai personaggi direzioni inaspettate. Giochi con le aspettative dello spettatore fino all’ultimo.
Volevo che fosse possibile un’identificazione con i personaggi. Mostrare da subito i ragazzi come dei bulli non avrebbe avuto senso. Quando leggiamo di assassini e psicopatici sui giornali o ne sentiamo parlare al telegiornale, il primo pensiero è sempre: “questi non sono come me, non sono come noi”. Io invece ci tenevo a mostrare il contrario, cioè che sono noi, che sono la nostra società, che potrebbero essere il tuo amico, il tuo fidanzato o tuo cugino.
E in questo si inserisce il tema dell’omofobia.
Sì, dell’omofobia, del privilegio sociale e della violenza.
La violenza – o comunque la percezione di un senso di minaccia – cresce progressivamente, scena dopo scena, senza quasi che ce ne accorgiamo.
Dopo lo stupro della ragazza sai che tutto è possibile.
È un punto di svolta. Ma devo dire che mai mi sarei aspettato una chiusura così cruda, con un omicidio a sangue freddo con una mazza da baseball.
Sai quello che diceva Cechov delle pistole: se compaiono, bisogna farle sparare. Ho mostrato la mazza da baseball perché ero sicuro che alla fine l’avrei usata. Non volevo restare a metà strada, perché Horseplay per me era anche il ritratto di uno psicopatico.
Le dinamiche del branco accelerano l’esplosione di Nico?
No, non credo. Nico odia Poli perché pensa che sia gay e allo stesso tempo è geloso di Andy. Alla fine la sua testa scoppia.
Per larghi tratti si è tentati di credere che a esplodere sarà Poli.
Contro gli omofobi, sì. E originariamente, nella sceneggiatura, era proprio così: Poli uccideva uno degli altri ragazzi. Poi ho pensato che a subire la violenza potesse essere lui. Ma in entrambi i casi, quello del vendicatore e quello della vittima, il personaggio dell’omosessuale era stereotipato. E allora ho deciso di rimuoverlo dal quadro e di spostare il conflitto tra due eterosessuali. Il problema non riguarda Poli, ma Nico e Andy e la loro omofobia.
Che non è altro che una forma di paura che li porta a dubitare di sé stessi.
Certo. Nico è etero, ma ha un tale terrore di provare un po’ di attrazione omosessuale che preferisce eliminare il problema uccidendo il suo migliore amico.
Anche con la storia a cui ti sei ispirato c’entrava l’omofobia?
No, lì era una questione di razzismo: un gruppo di bei ragazzi biondi, europei, che ammazzano un indio perché è diverso da loro.
In Horseplay invece la diversità di alcuni personaggi è data dalle loro pulsioni omosessuali, e ciò che scatena la violenza è la paura nei confronti dell’omosessualità. Ora, pur conoscendo solo superficialmente la realtà sociale argentina, vedendo il tuo film confesso di essermi chiesto a più riprese se il quadro che presentavi fosse plausibile o no. Sono davvero così inibiti e spaventati dalla diversità sessuale i giovani argentini?
Sì, i ventenni dell’alta società sono così. Ad avere un’apertura mentale maggiore sono gli adolescenti nelle grandi città e in generale i figli della classe media. L’omofobia è forte tra i ricchi e tra i più poveri.
Ti sei chiesto perché?
Non so con esattezza… (pausa) Forse è una forma di repressione. La parte più povera della società è legata a una mentalità più machista, mentre quella più ricca lo è ad alcune regole e tradizioni familiari, e poi sente l’influenza della chiesa cattolica. In mezzo c’è più libertà.
Non è la prima volta che filmi un gruppo di uomini in uno spazio chiuso.
Sì, già in Taekwondo…
E anche in Gualeguaychú: El país del carnaval. È una situazione che ritorna nel tuo cinema.
Ma non so spiegarne il motivo. Prendi Taekwondo e Horseplay: entrambi hanno dei protagonisti maschi ripresi in una casa, però il primo è una storia d’amore dolcissima mentre il secondo è un ritratto molto cupo della società argentina. E li ho diretti io, entrambi rispecchiano il mio punto di vista.
Non hai paura che i tuoi film risultino troppo simili tra loro?
All’inizio lo temevo, ma poi mi sono reso conto che quello, semplicemente, è il mio modo di vedere il mondo e di rappresentarlo. Se facessi un film più, diciamo, “standard”, mi perderei. Preferisco essere più onesto e coerente con me stesso. Mi piacciono gli uomini, mi piacciono i corpi, mi piace questo modo intimo di girare: tutte cose che posso avere tanto in una storia d’amore quanto in un dramma più oscuro… C’è, poi, credo, anche una questione politica. Quand’ero più giovane vedevo donne nude in ogni film, sempre, ovunque. Da regista ho invece scelto di mettere al centro l’uomo – l’uomo nudo – e ho nascosto la donna. È stata una presa di posizione, la mia.
Questo non rischia di limitare le possibilità di avere un pubblico più ampio e di farti finire in una sorta di ghetto?
Sì, ma non mi importa, io mostro quello che voglio. Nessuno critica Woody Allen o Steven Spielberg perché fanno solo film eterosessuali – e in effetti loro fanno solo film eterosessuali. Visto che l’eterosessualità è considerata la norma, mi chiedono di giustificare il fatto di girare film gay. A Paul Thomas Anderson, però, non vanno a chiedere conto delle storie che racconta.
Quindi non hai problemi a farti etichettare come regista queer?
A volte può infastidire, perché magari a un festival ti selezionano con altri dieci titoli e sottolineano subito che il tuo è il film queer, come a dire che non è un film regolare. Altre volte invece finisci nella sezione queer di un festival in Polonia, e sai che il tuo lavoro verrà visto da un pubblico che saprà identificarsi… Dipende. In certi giorni mi sembra una figata, in altri lo detesto.
Se guardi in rete, ogni tuo film è presentato come “film gay argentino”. Faccio fatica a definire così anche Horseplay, nonostante l’omosessualità sia qui di nuovo centrale…
Perché non è un film gay. Come non lo è Gualeguaychú.
Ma è omosessuale il tuo punto di vista.
No, per me i film sono film. Riflettono il mio sguardo ma sono film. Essere omosessuale non è una professione.
Insisto su questo perché credo sia legato alla questione delle aspettative di cui parlavi prima. In Horseplay, per farti un esempio più chiaro, più volte il personaggio di Nico, appena sveglio, attraversa il corridoio della casa e osserva qualcosa che sta succedendo fuori campo in una delle stanze. Ecco, pensi che quelli seduti in platea che conoscono il tuo cinema e quelli che non lo conoscono si aspettino, allo stacco successivo, di vedere cose diverse?
Capisco cosa intendi… Diretto da un altro che non sia io, che non sia un regista gay, il film non avrebbe quel tipo di tensione.
Sono scene che si ripetono pressoché identiche e in cui tu sembri stuzzicare lo spettatore. Stuzzichi lo spettatore come i protagonisti di Horseplay si stuzzicano tra loro.
Ci gioco ogni volta, sì. Ma non è una cosa voluta, mi viene naturale… Io vedo erotismo nella lotta greco-romana, mentre altri ci vedono solo aggressività e violenza.