di Massimo Lechi.
Alla settantaduesima Berlinale (10-20 febbraio 2022), pur all’interno di una sezione competitiva come Encounters, ricca di opere ambiziosissime e diseguali, dalla natura difficilmente definibile, capaci di fondere con estrema disinvoltura documentario e finzione, passato e presente, analisi storico-politica e ricerca poetica, A Little Love Package di Gastón Solnicki si è distinto per estro registico, ironia e, soprattutto, eccentricità.
Il film che ha segnato il ritorno dietro la macchina da presa del talentuoso cineasta argentino, affermatosi a livello internazionale nel 2011 con il documentario familiare Papirosen e poi con due piccoli ma preziosi gioielli cinematografici quali Kékszakállú (2016) e Introduzione all’oscuro (2018), è un’appassionata dichiarazione d’amore intellettuale nei confronti di una Vienna idealizzata e fuori dal tempo (con in più un importante segmento andaluso), un racconto per suoni e immagini ondivago e sfuggente, sostenuto dalle splendide luci del mago portoghese Rui Poças, dalla voce dissonante dello scrittore messicano Mario Bellatin e dall’intensa presenza delle attrici Carmen Chaplin e Angeliki Papoulia. Grave e stralunato, tenero e algido, spiazzante e attraente, A Little Love Package vive di forti contrasti e accostamenti arditi, di istantanee folgoranti e di intuizioni estemporanee che riescono – misteri del cinema – a coesistere in un’improbabile ma tremendamente suggestiva polifonia latino-mitteleuropea.
Immagino lo si possa dire di molte altre opere cinematografiche, ma la mia sensazione è che A Little Love Package sia soprattutto un film figlio di incontri umani, personali.
Sì, sicuramente, tra le tante altre cose. Sono stati importanti gli incontri prima di Vienna e poi quelli durante le riprese, con la nostra cellula latino-portoghese-greco-austriaca che si muoveva per la città conquistando e occupando luoghi che erano vuoti e che avevano bisogno di calore. Ma A Little Love Package è anche la conseguenza dell’essere sopravvissuti alla pandemia. Qualche tempo fa ho sentito un’amica che non vedevo dal periodo delle riprese, più di un anno fa: le ho raccontato di come avevamo girato in Austria durante il lockdown, dopo l’attacco terroristico, senza avere un posto in cui poter andare in bagno o prendere qualcosa di caldo, e lei mi ha detto che il film era una “forza della natura”. So che è la tipica definizione che si dà di un film, ma io mi ci ritrovo. Il nostro è stato un atto di resistenza, anche se la crisi mondiale in quel momento era ancora all’inizio. Anzi, oserei dire, mettendola in altri termini, che senza la crisi mondiale non ci sarebbe proprio stato il film.
È un figlio della crisi.
Sì, in un certo senso. Ma lo è in una maniera particolare perché non è un film sulla pandemia, non si vedono le mascherine.
Il punto di partenza di A Little Love Package è infatti l’introduzione del divieto di fumo nei locali austriaci, che ha comportato la fine di un modo di vivere e anche di un immaginario.
Nel 2019 ero proprio a Vienna a presentare il mio ultimo corto, Circumplector, quando ho sentito del divieto per la prima volta. Penso comunque che questa idea di epoche che finiscono e di collassi imminenti di determinati stili di vita sia già stata molto presente in altri miei lavori, incluso il mio film di finzione precedente Kékszakállú, che era consapevolmente ispirato a un’opera di Bartók composta prima dello scoppio della prima guerra mondiale in quella parte del mondo. Alcune atmosfere oscure del 1911, del 1914, del 1939, e infine del 2019, ritornano nel mio cinema di questi anni.
Il tema del declino è molto presente nei tuoi film.
Be’, non sono un feticista del declino, se è questo che intendi! (ride)
No, non parlo di feticismo…
Sono più per la costruzione di edifici e strutture. Ma sono anche un Sagittario amante del caffè, come Beethoven: accetto il caos.
L’idea di due personaggi femminili che vagano per Vienna, una città che dopo Introduzione all’oscuro è evidentemente diventata un tuo spazio cinematografico prediletto, quando e come l’hai avuta?
È stata una questione di immaginazione. Ho dato per scontato che Angeliki e Carmen avrebbero lavorato bene insieme. Angeliki l’avevo conosciuta a un festival, a Karlovy Vary: eravamo diventati amici molto rapidamente perché, pur avendo background piuttosto diversi, c’è una certa affinità tra noi. Carmen invece l’avevo incontrata tanti anni fa a New York, quando studiavo cinema: avevamo girato un corto insieme, ma poi ci eravamo persi di vista. Avevo questo desiderio intimo di realizzare qualcosa con entrambe e devo dire che il fatto che il loro incontro abbia potuto avere luogo è stato un miracolo. Altri attori, performer e musicisti con i quali pensavo di lavorare nel film non sono riusciti a raggiungere Vienna in tempo.
Portare a termine le riprese dev’essere stata una vera impresa.
Siamo riusciti a girare per tre settimane durante un lockdown totale. Carmen e Angeliki hanno avuto il coraggio di restare con noi in condizioni davvero difficili. Non c’era niente, e non mi riferisco solo all’assenza del reparto trucco o di qualcuno che si prendesse cura di loro: la città era completamente chiusa. E in più non avevamo una sceneggiatura, perché io non lavoro con gli script. Non è stato quindi il più semplice dei processi creativi. Avevo in mente un filo narrativo molto sottile su cui pensavo di poter costruire: due donne che girano per Vienna in cerca di un appartamento. Siamo partiti da lì e quello che vedi sullo schermo è interamente improvvisato, inclusi i dialoghi. Ed è il frutto della loro immensa generosità.
Come hai lavorato con loro concretamente sulle scene e sui personaggi? Creavate insieme delle situazioni? Anche l’improvvisazione più totale, credo, ha bisogno di avvenire all’interno di coordinate e limiti precisi.
Suonerà folle ma, non essendoci dialoghi e percorsi definiti, abbiamo iniziato a includere tutto quello che Carmen e Angeliki potevano portare nel film. I personaggi, infatti, hanno i loro nomi. C’era una versione del trattamento con delle scene e delle location che volevo filmare. Molto spesso non ricevevamo i permessi per girare ed è qui che si è rivelato cruciale il contributo del mio direttore della fotografia Rui Poças, che è un maestro della sua arte oltre che un essere umano straordinario e sa quando è il caso di lasciar perdere. I miei film non sono strutturati ma partono da delle idee e delle ipotesi, e dunque c’è davvero tanta libertà. Spesso ci rendiamo conto se una cosa funziona o meno non tanto sul set quanto in sala di montaggio, dove c’è il mio amico Alan Segal. Noi non siamo innamorati del materiale. Se una cosa non funziona, non la usiamo. E se non c’è un film, non c’è un film. E se decidiamo che bisogna girare ancora due settimane, lo facciamo, perché le dimensioni della produzione sono talmente limitate da consentircelo.
Filmi molto, mi pare di capire.
Sì, ma incredibilmente la maggior parte di quello che abbiamo filmato per Introduzione all’oscuro e A Little Love Package è stato effettivamente utilizzato, cosa che non mi capita di frequente, considerando il mio metodo di regia. Per i miei primi film avevo girato centinaia di ore di materiale.
È un metodo potenzialmente molto pericoloso. Non hai il timore di arrivare sul set e perdere il filo, non visualizzare più il film?
Ma non puoi perdere quello che non hai. Io non mi metto mai nelle condizioni di essere obbligato a tornare dalle riprese con un film. Io non giro un film: io filmo delle cose che so di dover riprendere, senza sapere cosa sono o se le userò o quando le userò. E naturalmente posso farlo grazie al digitale, che ha portato una libertà che io considero molto importante nell’arte. Senza la tecnologia digitale i miei lavori non potrebbero esistere.
Immagino sia difficile anche a livello produttivo, nonostante i costi contenuti.
Io mi trovo nella posizione molto privilegiata di poter dire a me stesso che non ho bisogno che istituzioni o fondi cinematografici approvino i miei progetti e che non devo aspettare cinque anni perché la bontà delle mie idee venga certificata da qualcuno. Mi rendo conto che viste dal di fuori le nostre produzioni potrebbero sembrare delle truffe, perché non abbiamo sceneggiature: quando vado ai “work in progress” nei festival mi chiedono di cosa parla il mio film e io non so rispondere, mi chiedono di descriverlo e io non so cosa dire. Ho però delle intuizioni, sento di voler lavorare con determinate persone in determinati luoghi su una determinata materia e loro diventano parte della creazione. E ogni film si trasforma in una sfida perché non ripetiamo mai lo stesso soggetto, anche se alla fine ci sono delle continuità dal punto di vista tematico. È una sfida soprattutto per attrici come Carmen e Angeliki, che sono abituate a lavorare con molte più risorse e più informazioni su quello che devono fare. Ma, accettando il caos, si affrontano poi le incertezze con un certo rigore e si possono così trovare quelle epifanie cinematografiche su cui è costruito il mio cinema.
Richiedi uno sforzo molto particolare ai tuoi collaboratori.
Loro mi seguono e per una qualche ragione credono che lavorando con me accadrà qualcosa. Naturalmente so benissimo che altri registi hanno dato vita a opere meravigliose lavorando in maniera più strutturata – non voglio certo ignorare la storia del cinema. Dico solo che questo è il mio modo di procedere. Organizzare le cose in maniera troppo precisa mi crea tante difficoltà. Mi piace mettere insieme un piccolo gruppo di persone – per Introduzione all’oscuro eravamo in cinque, in quest’ultimo film l’intera squadra stava invece in due macchine – e creare un’atmosfera amichevole, in cui tutti possano sentirsi apprezzati. Passiamo molto tempo insieme, cuciniamo insieme, parliamo, ed essendoci uno humor e una sensibilità comuni qualcosa di straordinario inizia a crescere: si crea un’energia molto bella che poi senti nei film.
C’è un forte senso di intimità in tutto A Little Love Package, che mi pare si ricolleghi poi al discorso sui legami familiari e la trasmissione delle tradizioni, altro pilastro del tuo cinema.
Sì, e mi piace l’idea che questo film celebri la famiglia e la tradizione in un modo molto insolito, metropolitano e caotico.
Be’, tu sei un vero cosmopolita. Le tue radici ebraiche ti rendono un uomo tanto del nuovo quanto del vecchio mondo.
Su questo punto ho due citazioni. La prima di Mauricio Kagel, il compositore protagonista del mio documentario Süden, che diceva che nella sua personale cosmologia l’Est aveva un posto speciale – e io sento la stessa cosa. E la seconda di Borges che nel bellissimo saggio Lo scrittore argentino e la tradizione, paragonando l’Argentina all’ebraismo, in quanto entrambi allo stesso tempo fuori da e al centro del mondo occidentale, sosteneva come appunto un autore argentino potesse scrivere tanto del Río de la Plata quanto del mondo arabo o delle stelle e dell’universo. Quindi sì, sono d’accordo con te. Personalmente sono sempre stato tormentato dal passato nomade della mia famiglia.
È un contrasto di culture molto affascinante. Contrasto, a proposito, è una parola che secondo me riassume anche A Little Love Package. Di contrasti ce ne sono diversi, a ben guardare: tra le due attrici-personaggio e i loro stili di vita, tra la parte girata a Vienna e quella girata in Spagna e così via. Angeliki Papoulia sembra essere la protagonista di un film artistico molto stilizzato, e in quanto tale abita tutte le tue inquadrature, mentre invece Carmen Chaplin, nel momento in cui la ritroviamo con la sua famiglia spagnola, ci riporta alle atmosfere di Papirosen e dei tuoi lavori più autobiografici.
Sì, è così.
Ed è una cosa di cui eri consapevole? Di fatto hai creato due film che sono il prodotto di sensibilità culturali e idee di cinema diverse e li hai schiacciati insieme, quasi costringendoli a dialogare.
È stata una cosa molto spontanea e istintiva. Dopo la fine delle riprese a Vienna ho sentito che volevo entrare di più nel mondo di Carmen e della sua famiglia. Inizialmente sono andato in Spagna solo per incontrarli, ma una volta arrivato lì, mi sono reso che volevo filmarli e includerli nel film.
E così hai catturato il clan Chaplin e hai proseguito la jam session – non so se sia l’espressione giusta – con loro.
Sono una famiglia molto carina, piena di persone di talento. Conoscevo solo Carmen, ma ero un grande fan di suo padre Michael, che è stato il mio attore bambino preferito in Un re a New York. La sua presenza e la sua fragilità mi hanno commosso molto.
Nel film fai apparire Michael Chaplin come un vecchio saggio, con tanto di cappello e barba bianca. Ci sono tanti anziani saggi nel tuo cinema: dal Mauricio Kagel di Süden a tuo padre in Papirosen passando per la voce e lo spirito del tuo mentore Hans Hurch in Introduzione all’oscuro.
È un’idea su cui non ho ancora riflettuto, ma mi piace… (pausa) Hai certamente ragione: sono molto attratto da questo tipo di figure paterne. Forse è un po’ presto per dirlo, ma trovo interessante come Introduzione all’oscuro e A Little Love Package riescano a creare corrispondenze con i miei altri film. La fragilità dei padri è sicuramente un elemento che ritorna, così come ritornano le dinamiche e i problemi di cuore, incarnati per me dalla figura paterna definitiva, mio nonno, che però non ho ancora raccontato. Lui è stato un personaggio incredibile, così larger-than-life che non sono finora riuscito ad afferrarlo completamente: un grande campione di scacchi e giocatore d’azzardo morto a Malaga a ottantasette anni a un tavolo di poker.
Interesse per le figure paterne e scarsa attitudine al compromesso: potremmo riassumere così l’intervista.
Oh, io scendo a compromessi più di qualsiasi altro regista. Ma che senso ha tenere così tante persone a non fare nulla su un set? E a cosa serve un set? Trovo che l’enfasi venga sempre posta sugli elementi più strani, e non so davvero perché. È la paura? Sono le lobby? Le scuole di cinema? I festival? Ormai non ci sono più scuse per non fare un film, non c’è nemmeno più bisogno di avere una macchina da presa di lusso.
Gli edifici che ti interessa costruire sono quindi in scala ridotta.
Be’, dammi ancora una decina d’anni!
Ti servirà una sceneggiatura però.
Per adesso va bene così. A dire il vero ce l’ho una sceneggiatura… Ma ogni volta che provo a concentrarmi su di essa finisco col prendere e fare un altro film.