di Guido Reverdito.
Il cinema italiano non abbonda di titoli che abbiano al centro il tema della disabilità intesa in senso lato. Per molti decenni questo tema delicato e spesso evitato per ragioni di pura convenienza (se non addirittura per essere stato a lungo una sorta di taboo da tenere a debita distanza dai copioni) non ha mai trovato grande spazio nella filmografia di casa nostra. Le eccezioni si contano sulla punta delle dita: basti pensare a Profumo di donna di Risi del 1974 e Perdiamoci di vista di Verdone del 1994.
E pensare che in filmografie di altri paesi il tema della disabilità è stato trattato quasi sempre senza atteggiamenti venati da buonismo peloso o comunque evitando di spingere sul pedale del patetismo gratuito per scatenare la compassione (e il senso di colpa) in chi guarda. Un tema così presente da diventare se non una sorta di sottogenere a sé stante, di certo occasione per sfornare titoli divenuti col tempo oggetto di culto globale dopo aver rastrellato i più prestigiosi riconoscimenti nei paesi di provenienza o addirittura il trionfo nella notte degli Oscar.
E qui l’elenco sarebbe fin troppo lungo, anche se forse basterebbe citarne alcuni per dare l’idea della forza trainante che soggetti incentrati sul tema della disabilità hanno avuto nella consacrazione di determinati titoli. La cinematografia americana è una miniera inesauribile a questo proposito. Ma forse sarebbe sufficiente ricordare Rainman, Figli di un dio minore e Forrest Gamp. Così come Il mio piede sinistro e Il discorso del Re possono essere validi esempi per l’industria cinematografica del Regno Unito, Quasi amici per quella francese, Mar Adentro per quella iberica e Lezioni di piano per quella di Australia e Nuova Zelanda.
E l’Italia? Da queste parti per anni c’è stata una forma di ostracismo passivo. Come se la disabilità (al pari di quanto accadeva nella realtà materiale di tutti i giorni) fosse una vergogna di cui era preferibile tacere più che sbatterla in faccia al pubblico per sdoganarla dal silenzio forzoso in cui decenni di perbenismo l’avevano relegata. Ed ecco che, oltre ai due già citati titoli di Risi e Verdone, per tutto il periodo compreso tra il primo dopoguerra e la fine degli anni ’90, il cinema italiano ha di fatto ignorato la disabilità in qualsivoglia di tutte le sue sfortunate declinazioni.
Anche cercando col lanternino si trova ben poco. Nel 1988 Dino Risi accettò di girare un film per la TV – Il vizio di vivere – ispirandosi liberamente alla tragica vicenda di Rosanna Benzi, tetraplegica vissuta dall’età di 14 anni fino alla morte in un polmone d’acciaio all’ospedale San Martino di Genova. E dopo di lui si può forse ricordare Dove siete? Io sono qui, melodramma diretto da Liliana Cavani cinque anni dopo e incentrato sulle vicende di due giovani sordomuti e sulle loro difficoltà a ritagliarsi un posto in una società all’epoca impreparata ad accoglierne la diversità.
Mentre un caso isolato è forse rappresentato dall’adattamento firmato nel 1997 da Roberto Faenza del romanzo di Dacia Maraini La lunga vita di Marianna Ucrìa. Isolato non solo per la presenza di una protagonista muta per ragioni che solo gli sviluppi della trama e un drammatico colpo di scena nella seconda parte del copione rivelano, ma soprattutto perché a interpretarne il ruolo venne chiamata Emmanuelle Laborit, nipote del celebre biologo francese Henri Laborit, ma più che altro sorda dalla nascita e poi per anni impegnata – come attrice e come attivista – a combattere l’emarginazione alla quale gli ipoudenti e i non udenti sono condannati dalla società.
Con la fine dello scorso millennio e l’inizio del nuovo si è invece assistito a un’improvvisa e quanto mai auspicata inversione di tendenza. Non solo è aumentato in maniera significativa il numero di film nei quali la disabilità si è imposta come nucleo narrativo centrale, ma molti cineasti hanno anche avuto il coraggio di affidare i ruoli di personaggi disabili ad attori non professionisti affetti dallo stesso tipo di patologie immaginate nella finzione.
E qui i “casi” non sono più eccezioni come nei decenni precedenti, ma diventano qualcosa che potrebbe somigliare, se non a una norma, a un incoraggiante cambiamento. A dare il segnale è A ruota libera, commedia degli equivoci che Vincenzo Salemme dirige nel 2000 trasferendo al cinema una sua pochade di qualche anno prima (Passerotti o Pipistrelli?), nella quale il regista e commediografo campano interpreta il personaggio di un paraplegico finito in carrozzella a seguito di un intervento chirurgico malriuscito e quindi deciso a vendicarsi di chi l’ha ridotto in quella condizione.
E in quello stesso anno che dava l’avvio al nuovo millennio, un giovane Claudio Santamaria interpretava il ruolo (decisivo per la soluzione del caso di un serial killer psicopatico che semina Bologna di cadaveri massacrandoli con un rituale macabro) di un ragazzo non vedente in Almost Blue, thriller cupissimo con scivolate nell’horror tratto dal romanzo omonimo di Carlo Lucarelli. Ma era solo l’inizio di una serie virtuosa di titoli che da quel momento in poi avrebbero visto al centro delle proprie storie personaggi affetti da qualche forma di diversa disabilità interpretati però non più e non solo da attori professionisti immersi nella parte, ma da persone con le stesse disabilità dei personaggi cuciti intorno a loro.
Nel 2002 esce infatti Piovono mucche, prodotto a basso costo ai confini tra la fiction e il documentario nel quale Luca Vendruscolo (sceneggiatore friulano in seguito regista della prima e fortunata stagione di Boris e poi di Ogni maledetto Natale) racconta col piglio leggero della commedia di formazione la propria esperienza di obiettore di coscienza presso una comunità romana per disabili nella quale – pur essendo privo di alcuna preparazione specifica – da un giorno all’ altro, si ritrova costretto a vivere al fianco di persone bisognose di continua assistenza medica, infermieristica ma anche psicologica.
Tra il 2003 e il 2004 tocca a un grosso calibro del peso di Gianni Amelio misurarsi con la disabilità da portare sullo schermo. E se con Il cuore altrove il regista calabrese affida a Vanessa Incontrada il ruolo di una ragazza non vedente che nei primi anni ’20 fa perdere la testa al frastornato professorino di Neri Marcorè, l’anno successivo adatta al cinema il doloroso romanzo autobiografico Nati due volti in cui Giuseppe Pontiggia parlava della propria esperienza di padre di un bambino affetto da handicap neuromotorio. Per il ruolo del figlio di Kim Rossi Stuart (che nel film Le chiavi di casa è un genitore che ha rifiutato ogni rapporto col figlio dopo aver perso la moglie morta dando alla luce un bambino che oggi chiameremmo diversamente abile), Amelio ha il coraggio di scegliere Andrea Rossi, un ragazzo affetto da quello stesso tipo di disturbo fin dalla nascita.
La scelta di Amelio è un gesto importante. E non è un caso se l’anno successivo due piccole produzioni italiane ne seguano in parte le orme. In Mai + come prima Giacomo Campiotti racconta la storia di sei compagni di scuola che dopo la maturità decidono di fare un viaggio insieme sulle Dolomiti durante il quale una serie di (dis)avventure li porta a scoprire la propria vera natura e a rivedere criticamente il rapporto con le rispettive famiglie. Uno dei giovani attori che interpretano i sei ragazzi è realmente portatore di handicap motorio e costringe i compagni a una non facile assistenza sui sentieri di montagna.
In quello stesso 2005, presentato nella sezione “Alice nella Città” della prima Festa del cinema di Roma, esce Rosso come il cielo, scritto e diretto da Corrado Bortone partendo come spunto narrativo dalla vita del montatore del suono Mirco Mencacci, che perse la vista a dieci anni a seguito di un incidente causato dal fucile da caccia del padre e che da allora venne affidato a un istituto per bambini diversamente abili di Genova dove imparò un sistema diverso dal Braille per comunicare attraverso il suono. E nella ricostruzione che nel film viene fatta di quella comunità dove Mencacci rimase per sei anni sono realmente non vedenti alcuni ospiti.
Negli anni ’10 il tema della disabilità sembra tornare progressivamente nell’ombra: le sole eccezioni sono due. Uno è L’estate di Giacomo, film del 2011 ai confini tra il documentario e il racconto morale alla Rohmer con cui Alessandro Comodin rievoca la storia di un ragazzo realmente ipoudente che nel corso di una magica estate prima conosce l’amore vero e poi riacquista l’udito a seguito di un’operazione. L’altro è invece Padroni di casa, dell’anno successivo, nel quale Edoardo Gabbriellini affida a Valeria Bruni Tedeschi il ruolo della moglie di Gianni Morandi costretta su una sedia a rotelle a seguito di una grave malattia.
Quattro anni dopo arriva però nelle sale Ho amici in paradiso di Fabrizio Maria Cortese. Nato da un’idea avuta durante un corso di recitazione da lui tenuto all’interno della comunità per persone disabili nella Casa San Giuseppe dell’Opera Don Guanella a Roma, il film era stato inizialmente pensato come un documentario per celebrare il centenario della morte di Don Guanella. Ma poi, sulla scorta del successo di quello stesso corso, Cortese aveva virato verso una sorta di bizzarro docufiction nel quale la storia di un commercialista truffaldino inseguito dalla criminalità organizzata e affidato ai servizi sociali si innesta sulla vita della comunità creando un bizzarro cortocircuito comico tra le vicende di finzione e la non facile ordinaria quotidianità degli ospiti, alcuni dei quali caratterizzati anche da importanti deficit intellettivi.
Nel 2017, con Brutti e cattivi Cosimo Gomez punta sullo stesso mix tra diversità e cinema di genere innestando a sua volta un topos del cinema d’azione come la rapina più o meno perfetta su quello della diversità e della percezione che la società normale ne ha abitualmente. La sua banda di freaks in stile Tod Browning (il capo e mente della scalcinata gang in carrozzella senza gambe, la sua donna bellissima ma priva di braccia, un nano e un tossicodipendente fuori controllo), reietti ai margini della società civile incapaci di creare empatia nel pubblico, sono forse il primo e più coraggioso esempio di sfruttamento cinematografico della disabilità alla stregua di qualsiasi altro personaggio negativo: la loro normalità è l’essere brutti e cattivi dentro, ma uguali in tutto ad altri normalissimi criminali da strapazzo non ostante la clamorosa diversità che li caratterizza.
L’anno dopo tocca a Paolo Ruffini imbarcarsi in un’avventura registica non da poco. Con Up&Down – Un film normale, il comico livornese ripercorre la nascita e il tour dello spettacolo teatrale Up&Down in cui è impegnata la compagnia livornese Mayor Von Frinzius diretta da Lamberto Giannini che la fondò nel 1997 e che conta quasi cento attori metà dei quali sono affetti da disabilità di diversa natura e gravità. E il film-documentario ruota infatti intorno a cinque ragazzi con sindrome di Down e uno autistico, i quali vengono pedinati da Ruffini non solo nelle esilaranti prove dello spettacolo stesso, ma anche in momenti della propria vita privata e nel contesto delle famiglie che ne sostengono affettuosamente la decisione di diventare attori.
Il 2019, oltre a essere l’ultimo caratterizzato da una programmazione nelle sale non funestata dalla schizofrenia operativa dettata dalle contingenze sanitarie, è anche un anno particolarmente significativo per l’affacciarsi prepotente del tema della disabilità sullo schermo. In un solo anno sono infatti usciti ben quattro lungometraggi italiani che ruotano a diverso titolo intorno a questo tema tanto delicato ma ugualmente necessario. E ben tre di essi hanno a che vedere ancora una volta con l’universo delle persone affette dalla sindrome di Down.
Detective per caso di Giorgio Romano può essere considerato una piccola pietra miliare nella storia della presenza della disabilità al cinema (per lo meno in quello italiano): pur trattandosi di un soggetto assolutamente elementare che farebbe pensare a un prodotto per spettatori molto in erba più che per un pubblico adulto, è il primo lungometraggio di finzione in cui ad attori affetti da disabilità mentale non siano stati affidati esclusivamente dei ruoli che ne ricalchino la palese diversità. E infatti la detective del titolo è l’attrice Down Emanuela Annini, che non ha la benché minima soggezione a recitare accanto a colleghi che rispondono ai nomi di Gerini, Fresi, Mastandrea e Bruno.
Di sindrome di Down si parla poi anche in altre due pellicole coeve. In Mio fratello rincorre i dinosauri (adattamento del fortunato romanzo autobiografico omonimo di Giacomo Mazzariol diretto da Stefano Cipani) il tema di questa forma di diversa abilità è affrontato nella fattispecie della difficoltà di accettarla in quanto tale come appunto una manifestazione di differente approccio alla vita anziché come una limitazione genetica che penalizza l’accesso alla vita. Anche in questo caso il ruolo del fratellino Down del protagonista della vicenda è affidato a diversi attori-bambini affetti dalla sindrome stessa.
Di problematiche di accettazione parla anche Solo cose belle, diretto da Kristian Gianfreda e in parte frutto dell’osservazione in presa diretta della vita dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata nel 1968 e diffusa su tutto il territorio nazionale con la missione primaria di impegno attivo a favore degli ultimi e degli emarginati. Che sono parte integrante della vicenda narrata nel film, dove col tono della commedia agrodolce si indaga sull’impatto che la conversione in casa famiglia di un edificio in disuso in un paesino del riminese ha sulla comunità locale quando a esservi ospitato è un bizzarro gruppo di misfit costituito da un papà, una mamma, un extracomunitario appena sbarcato, una ex-prostituta, un carcerato condannato a pena alternativa, due ragazzi con gravi disabilità (ospiti reali della comunità), un bimbo in affido e un figlio naturale.
Ma il caso più eclatante di conversione della disabilità da taboo difficile da trattare a tematica naturalmente possibile tra le tante affrontabili al cinema è forse rappresentato da Dafne, uscito ugualmente nel 2019 e scritto e diretto da Federico Bondi che disse di aver avuto l’idea della sceneggiatura dopo aver visto per caso un giorno per strada un padre anziano con la figlia Down al seguito ed essersi chiesto come potesse essere la vita di quella strana accoppiata. Di qui la storia della Dafne del titolo, trentacinquenne Down (interpretata dalla travolgente Carolina Raspanti) che tutto a un tratto si trova a dover elaborare il lutto per la morte improvvisa della madre e ad aiutare il padre a uscire dalla depressione in cui precipita dopo la perdita della moglie.
Ed è in questo filone del cinema sulla e con la disabilità che si innesta Corro da te, commedia che Riccardo Milani ha diretto dopo averne scritto la sceneggiatura a sei mani con Giulia Calenda e Furio Andreotti e che nelle ultime tre settimane si è rivelata un inatteso successo ai botteghini con incassi record soprattutto per i tempi che corrono.
Il film è un remake del successo francese del 2018 Tutti in piedi di Franck Dubosc. E se è innegabile che molte scene a effetto (vedi quella del rapporto sessuale nell’acqua della piscina super tecnologica che il protagonista fa apparire per miracolo nella propria sala da pranzo) sono un vero e proprio calco dello script originale, va anche detto che il personaggio di Pierfrancesco Favino è stato rimodellato radicalmente usando come riferimento certe icone di mascolinità italiota che popolavano il meglio della commedia di casa nostra e avevano spesso la faccia di Vittorio Gassman diretto da Dino Risi: sciupafemmine seriale immaturo e narcisista, il Gianni di Favino è l’ennesima incarnazione del macho egoista, egocentrico e sessuomane simbolo e sintomo di un malessere emotivo e generazionale che ammorba la nostra società in cui sono proprio i maschi di quel tipo a essere i soggetti più in crisi.
Un antieroe all’ablativo che in poche scene si fa subito odiare per l’opportunismo meschino con cui sfrutta le occasioni casuali regalate dalla vita per trarne un bieco profitto materiale (come lo spunto stesso dell’intera vicenda narrata, con Gianni che viene scambiato per disabile a seguito di un qui pro quo, cerca di abusare dell’equivoco per portarsi a letto la bella ragazza che ne è vittima, ma finisce col perdere la testa per la di lei sorella, realmente immobilizzata su una carrozzella). Un cialtrone figlio del proprio tempo che Milani disegna a tutto tondo, confermando la sua grande abilità scrittoria nel partorire superlative macchiette antropologiche già ampiamente dimostrata nei due protagonisti della saga di Come un gatto in tangenziale.
Ma Corro da te è anche – e soprattutto – un film non tanto sulla disabilità in quanto tale, ma piuttosto un film con una co-protagonista che è disabile. E che ciò non ostante conduce una vita normalissima (è una musicista di talento che viaggia per il mondo a incantare le platee col suo violino ma anche una campionessa di tennis), dimostrando come la diversa abilità motoria non implichi necessariamente un’abdicazione dall’esistenza ma sia soltanto una modalità alternativa di stare al mondo.
Il personaggio di Miriam Leone è lo strumento usato da Milani per parlare senza patetismi e ipocrisie del caso della condizione di chi si trova immobilizzato negli arti ma non nel resto della propria potenzialità di partecipazione alla vita attiva.
Al film non sono però mancate le critiche da parte di chi ha accusato gli autori della sceneggiatura di non aver optato per un’attrice realmente disabile, limitandosi invece a coinvolgere un gruppo di persone realmente disabili in una scena non felicissima in cui Chiara-Miriam Leone presenta a Gianni i suoi amici – tutti affetti da diversi tipi di handicap – e la macchina da presa ne passa imipetosamente in rassegna i volti e i corpi in ralenti facendosi precedere dalla marcia trionfale di Vangelis con cui si apriva Momenti di Gloria.
Ma allo stesso tempo è bene domandarsi se non sia meglio affrontare col piglio leggero della commedia vagamente all’italiana un tema per troppo tempo estraneo alla cinematografia di casa nostra quale la disabilità in molte delle sue declinazioni possibili, piuttosto che lasciare che a ricordarne la centralità nella vita di tutti siano sempre e solo le industrie del cinema di altri paesi al mondo.