di Gianmarco Cilento.
Walerian Borowczyk (1923-2006) è uno dei più influenti tra i cineasti polacchi del Novecento trapiantati all’estero, noto prevalentemente per alcuni film drammatici girati in Francia, quasi tutti a carattere profondamente erotico come I racconti immorali, La bestia e Interno di un convento. Si tratta di un regista che ha lasciato un solco di grande rilevanza nell’ambito della cinefilia europea, e – in attesa del centenario della nascita che si celebrerà il prossimo anno – mi sembra giusto parlarne appassionatamente con Valerio Caprara, storico critico de Il Mattino, nonché autore della prima monografia italiana dedicata a Borowczyk, uscita nel 1980 nella collana de Il Castoro Cinema.
Walerian Borowczyk (“Borofcek” la pronuncia corretta, ndr) è, insieme a Zulawski, Polanski e Skolimowski, uno di quegli autori polacchi che, una volta approdati in Francia, sono riusciti a cambiare le regole del gioco del grande cinema…
Certo. Tra Polonia e Francia vi sono enormi affinità culturali – non antropologiche ovviamente – che si sono sviluppate con delle emigrazioni, ma anche con reciproche comprensioni e frequentazioni. Dal momento in cui Borowczyk si stabilì in Francia, al contrario di Polanski, ebbe raramente rapporti con la propria terra d’origine.
Quando hai scoperto il suo cinema?
Attorno al 1975, curiosando nelle sale di terza visione romane in compagnia degli amici del Movimento Studentesco, un gruppo di cinefili ancora “aperti” al nuovo, poco dogmatici. Cercavamo questi film particolari, ma anche un po’ messi da parti dal circuito delle sale principali. Il primo film che vidi fu I racconti immorali, del quale lessi una bella recensione di Tullio Kezich su la Repubblica intitolata “quattro storie sovversive”, puoi immaginare… qualsiasi cosa all’epoca definita “sovversiva” non poteva che suscitare l’interesse di noi giovani scapestrati d’allora. E quasi contemporaneamente scopersi La bestia, che come sappiamo tutti è un film ancor più estremo, spesso ai limiti della pornografia. Anche quest’opera venne puntualmente recensita da Kezich, al contrario dei vari Rondi e Grazzini che snobbavano questo tipo di cinema.
C’era un po’ di pregiudizio da parte loro…
Esattamente. Kezich invece era avanti, assieme a Callisto Cosulich, triestino come lui, dongiovanni nonché grande esperto di cinema erotico, che scriveva su Paese Sera.
La tua prima recensione su Borowczyk?
Risale a quel periodo, ovviamente, stilai una recensione de La bestia su Tempo Illustrato, dal titolo “una scarica d’orgasmi a bruciapelo”. E anche Kezich lo recensì positivamente. Nel frattempo, uscì Storia di un peccato, che segnò tra l’altro il suo unico ritorno artistico in Polonia, e fu da lì che iniziai davvero ad appassionarmi a tutto il suo cinema, andando a ricercare anche i film precedenti. All’epoca era difficilissimo reperire film che avevano concluso lo sfruttamento nelle sale… Non c’erano dvd, internet, tv a pagamento, davvero niente. Comunque, con grande fatica riuscii a vedere anche Goto – L’isola dell’amore, il suo primo lungometraggio risalente al 1968, e Blanche che è del 1971.
Per me ‘Storia di un peccato’ e ‘La bestia’ sono i suoi film migliori. Nel primo a farla da padrone un romanticismo letterario a dir poco magnificente, nel secondo un gusto per la trasgressione e lo scandalo non indegno dell’ultimo, ultraestremo, Pasolini di ‘Salò’.
In realtà credo che ci potrebbe essere qualche affinità tra il Borowczyk più spinto e la “trilogia della vita” di Pasolini. La gioia, l’allegria innocente dell’erotismo, la possiamo trovare ne Il Decameron, per quanto con occhio meno intellettualistico del regista polacco. Non sono un grande estimatore di Salò o le 120 giornate di Sodoma, lo trovo un film mortuario, che dell’erotismo ne ha nausea, e se ne serve per metaforizzare il male, la cattiveria e un fascismo iperuranico.
In quegli anni Borowczyk era molto attivo, basti pensare che nel 1976 girò anche ‘Il margine’.
Quando uscì quel film ero già a lavoro con il libro, che fu una mia idea, approvata dallo storico direttore della collana de Il Castoro, il grande Fernaldo Di Giammatteo, uomo libero, laico, riformista, nonché liberale per quanto concerne la visione del cinema. Solo quando iniziai a scrivere mi misi alla ricerca di tutto il periodo dei corti d’animazione di Borowczyk, che precede Goto. Il margine, più ricco e sdoganato dei precedenti, mi deluse un po’, lo trovai meno originale, quasi come un segnale di inaridimento della sua vena artistica. Su quel film Enrico Ghezzi scrisse una bella recensione su Filmcritica.
E arriviamo all’incontro, riuscisti a intervistare il maestro…
Mi misi in contatto con lui tramite la casa editrice, che raggiunse la Trust International Film, casa di produzione di Interno di un convento, girato prevalentemente in Italia. Gli mandai una lettera informandolo del libro e chiedendogli l’intervista. Ebbi l’adesione, l’incontro avvenne a Roma, in una sala di montaggio nei pressi di Piazza del Popolo. Dialogammo lì, in francese, in quella saletta dove stava montando il film (fu proprio lui il montatore!). Se non sbaglio era il 1977 inoltrato.
Che impressione ti fece?
Tipo indecifrabile. Me lo ricordo non molto attraente, tutto vestito di nero, come gli americani trendy newyorkesi degli anni successivi. Ma nella sua “normalità” era il contrario dell’artista maledetto. Non molto comunicativo e affettuoso, ma neanche scortese. Rispondeva alle domande senza dare l’impressione di infastidirsi, ma neanche di provare particolare entusiasmo per la conversazione. E’ stato il nostro unico incontro, non ho avuto più occasione di vederlo.
Gli piacque il tuo libro?
Questo non lo so. Non l’ho mai saputo. Ricordo piuttosto che alcuni anni fa venne a intervistarmi, qui a casa mia, un regista polacco per un documentario a lui dedicato. Venne questo ragazzo con una troupe di tre persone, mi tennero impegnato più di cinque ore a casa, dopo una breve pausa mi continuarono a filmare per le strade di Napoli fino a sera, al punto che fui costretto a dire che dovevo andarmene. Gli regalai anche un fascicolo, ma quando mi fecero avere il documentario, un annetto dopo, vidi che della mia intervista misero pochi secondi! (ride).
E dei film successivi che ne pensi?
Mi entusiasmarono molto meno. Già Lulù lo trovai deludente, per non dire piatto. Ma soprattutto trovai rischioso mettersi a confronto con la splendida pièce di Frank Wedekind, nonché con i precedenti adattamenti del mito di Lulù. Anche l’erotismo non era più lo stesso, non aveva più la trasgressione dei precedenti… in una fase di porno soft ormai incipiente il tutto era molto abborracciato. Anche Ars amandi – L’arte di amare non mi convinse per nulla. Non menzioniamo ovviamente Emmanuelle 5, che firmò ma del quale non girò quasi nulla. Mentre La regina della notte, il suo ultimo lungometraggio, aveva un suo perché… non era certo tornato ai vecchi splendori, ma André Pieyre de Mandiargues, autore della novella di partenza, Tout disparaîtra, aveva molto in comune con lui e quindi lo rimise in carreggiata.
A questo film, uscito nel 1988, segue un mediometraggio per la televisione (Un traitement justifie) e poi nessun altro film… Un vero peccato
Vero, ma aggiungo che non sarebbe male consultare (mi pare sia finita alla Cinémathèque française di Parigi) la sua collezione di oggettistica erotico/pornografica, alla quale anni prima dedicò il corto Une collection particulière.