di Aldo Viganò.
Soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, il cinema hollywoodiano e i suoi sceneggiatori, pur senza mai rinunciare al primato dell’azione, puntarono sovente sui drammi della mente e sulla riscoperta della psicanalisi, trovandovi la materia narrativa per molti film di un nuovo “genere”, tra i quali si può annoverare anche Nightmare Alley che nel 1947 il produttore Darryl Zanuck trasse dal romanzo di William Lindsay Gresham, affidandone il ruolo del protagonista a Tyrone Power (appena tornato dalla guerra) e la regia all’inglese Edmund Goulding, reduce dal successo di Schiavo d’amore e di Il filo del rasoio.
Ora, a più di settant’anni di distanza, lo stesso soggetto, pur oggi alquanto sorpassato dai tempi, viene ripreso dal messicano Guillermo Del Toro, il quale, affidandosi al suo solito modo di fare del cinema, mescola sempre il fantastico e la realtà, in una sintesi stilistica in cui il thriller fa da sfondo al mostruoso e all’avidità umana.
Ne nasce così un film alquanto ambizioso, interpretato da Bradley Cooper e nettamente diviso in due parti che si vorrebbero speculari.
Diciamolo subito, però: un film nel complesso molto deludente.
Nella prima metà, ambientata tra i baracconi di un Luna Park dei primissimi anni Quaranta, dove il protagonista, tormentato dall’incubo ricorrente della memoria del padre e dell’incendio della sua casa (il fuoco purifica), fa la conoscenza della eccentrica fauna che colà abita e lavora (l’uomo-mostro, il gigante e il nano, la ragazza elettrica e la lettrice di tarocchi: tutti personaggi che curiosamente sembrano usciti da Freaks Out di Gabriele Mainetti) e dove egli impara da un vecchio ubriacone i trucchi della “lettura della mente”, che, nella seconda parte del film, saprà mettere a frutto nei salotti buoni degli hotels di lusso della metropoli, dopo di esservisi trasferito in compagnia di Molly (la ragazza elettrica).
Qui, Bradley Cooper fa la conoscenza di un’attraente, ma pericolosa, psicologa (Cate Blanchet) che ha tra i suoi clienti alcuni membri dell’alta società e, con la complicità di lei, organizza alcuni colpi sfruttando, proprio come aveva già fatto con il vecchio dei baracconi, il suo archivio nel quale la donna raccoglie meticolosamente le sue informazioni sulla fragilità della mente umana dei pazienti più ricchi.
Del Toro realizza così con La fiera delle illusioni un film che parla soprattutto di truffa e d’inganno, di voracità e sfruttamento delle debolezze altrui. Un thriller che stenta però a risultare credibile anche nella sua duplicità d’ambientazione figurativa. Un’opera piena di simbologia psicanalitica, nella cui prima metà (decisamente la meno peggio), tende a essere dominato dalla pioggia e dal fango, mentre nella seconda vede dalle finestre incessantemente cadere, lentamente, ma inesorabile, una candida neve, macchiata però tutto il tempo da quelli che si scopriranno essere i peccati e i sensi di colpa degli esseri umani, tormentati dai fantasmi del loro passato.
È in questo lussuoso habitat, dove dominano gli abiti eleganti dei maschi e quelli alla moda della fine anni Trenta delle femmine, che Del Toro rivela la natura sordidamente mostruosa dell’umanità che abita tutto il film: sia quella dei poveri, sia quella dei ricchi che trasudano soldi.
Dal punto di vista narrativo, Del Toro non fa certo mistero del gioco dei rispecchiamenti psicologici che caratterizzano e sottendono tutto il suo film, sempre dominato dall’avidità e dall’inganno. Non c’è differenza tra i trucchi un po’ cialtroneschi cui fa ricorso Bradley Cooper e le sofisticate articolazioni mentali cui fa la psicanalista Cate Blanchet per ingannare i ricchi gonzi. Li accomuna lo stesso intento cinico di sfruttare gli altri. Tra Freud e i tarocchi, sembra dire La fiera delle illusioni, non ci sono differenze, in fin dei conti. Si alimentano entrambi della credulità altrui per arricchirsi. E chi li frequenta senza troppi peli sullo stomaco, non può che esserne stritolato.
Proprio come a suo tempo finiva (anche con un flop al botteghino) il “divo” Tyrone Power, al termine del suo pur ambizioso tentativo di cimentarsi nel dopoguerra con un personaggio più complesso del solito; e come termina qui anche la voracità di Bradley Cooper, che è obbligato infine a tornare nel Luna Park, accettando per sé il ruolo, certo anche simbolico, dell’uomo-mostro assunto per divorare con voracità, nel corso del proprio spettacolo, i suoi polli vivi, per un pubblico emotivamente pieno di sensi di colpa e di complessi.
Condizionato da un simile pessimismo di fondo, culturalmente cinico e intellettualisticamente alquanto banale, Del Toro s’immerge con molte ambizioni nella materia narrativa evocata da Gresham nei giorni in cui l’America dichiarava guerra al Giappone; ma stenta a dare credibilità a un film che, in fin dei conti, non ottiene quasi mai di essere convincente; con il risultato che questo remake di La fiera delle illusioni delude le attese, sia come onirica evocazione di quell’epoca passata, sia come thriller psicologico; non riuscendo neppure, come sembra essere nelle sue intenzioni, quale critica comparata tra la psicanalisi e i trucchi degli imbonitori da luna park, che per tutto il film vengono pur nobilitati come praticanti del “mentalismo”.
LA FIERA DELLE ILLUSIOMI
(Nightmare Alley, 2021 – Usa, Messico) Regia: Guillermo Del Toro – soggetto: dal romanzo di William Lindsay Gresham – sceneggiatura: Guillermo Del Toro e Kim Morgan – fotografia: Dan Laustsen – musica: Nathan Johnson – scenografia: Tamara Deverell – costumi: Luis Segueira – montaggio: Cam McLauchlin. interpreti e personaggi: Bradley Cooper (Stanton “Stan” Carlisle), Cate Blanchett (Lilith Ritter). Toni Collette (Zeena Krumbein), Willem Dafoe (Clem Hoately), Richard Jenkins (Ezra Grindle), Rooney Mara (Molly), Ron Perlman (Bruno), David Strathaim (Pete Krumbein). distribuzione: Searchlight Pictures – durata: due ore e 30 minuti