di Aldo Viganò.
In un centro astronomico statunitense, una ricercatrice (Jennifer Lawrence) scopre casualmente che un gigantesco meteoroide è in viaggio verso la terra e calcola che il distruttivo impatto con il nostro pianeta avverrà tra sei mesi. La ragazza avverte subito della cosa il suo professore di riferimento (Leonardo DiCaprio), che, pur scettico, cerca di informare la presidente degli Usa (Meryl Streep) la quale, troppo presa dai suoi calcoli elettorali, dapprima cerca d’ignorare la notizia; ma, quando questa viene rimbalzata da una trasmissione televisiva condotta da Cate Blanchett, la scoperta diventa di dominio pubblico e il panico si diffonde.
Inizia così quello che sembra essere un ennesimo film catastrofico di fantascienza, ma evidentemente al regista e sceneggiatore Adam McKay (già autore di opere discusse e discutibili quali Anchorman 1 e 2 o La grande scommessa) interessa tutta un’altra storia, dirottando verso altrove la sua messa in scena quando viene scoperto che il meteoroide in procinto di precipitare sulla terra contiene in sé tanti metalli preziosi da rendere ricchi per sempre almeno tutti gli abitanti dell’America. A questo punto, l’opinione pubblica si divide di fronte alla pur inevitabile distruzione. Chi è favorevole e chi contrario. Tra commedia e tragedia, McKay ne mette in scena le contrapposte motivazioni. E, quando la distruzione infine accade, dopo i titoli di coda, il suo film si apre verso un ironico futuro da fantascienza.
A ben vedere le incertezze intorno all’espressione di un giudizio di valore a proposito di Don’t Look Up non sono oggi presenti solo del calderone tritatutto di internet, ma investono anche la maggior parte della critica, non solo nazionale.
Si tratta di una consapevole parodia del mondo contemporaneo o di un’autobiografica enunciazione del proprio modo di fare del cinema? Detto in modo romanesco, cioè, viene da chiedersi: Adam McKay “lo è o ci fa?”. E con lui vale lo stesso discorso per i tanti celebri attori che ne abitano i fotogrammi, recitando contemporaneamente la realtà dei personaggi e la loro messa in farsa.
Durante la visione di questo strano film, a me veniva sovente in mente lo stesso interrogativo che ci si poneva nei decenni scorsi di fronte alla “commedia all’italiana” o alla recitazione di Alberto Sordi, dando corpo su molte pagine scritte a un repertorio critico che alla resa dei conti finiva col coincidere con quello del moralista Nanni Moretti. Ricordate? “Ve lo meritate Alberto Sordi!”. O di chi (allora erano in tanti) non esitava a concludere che la “commedia all’italiana” era la logica conseguenza del degrado del Neorealismo a “genere” commerciale. Anche se, a ben guardare, a rendere esplicita l’interpretazione di quei film, pur maldestramente oggi rivalutati, c’era poi al loro interno quasi sempre la presenza, anche sin troppo dichiarata, di un giudizio etico riassuntivo nel quale il pubblico poteva infine rasserenarsi (basti pensare allo schiaffo di Sordi a Claudio Gora sul bordo della piscina di Una vita difficile).
Mentre in Don’t Look Up questa esplicita chiave di lettura non c’è. O va ricercata con il rischio di non trovarla.
Come non c’è, nonostante il ricco cast che lo compone, un divo che funga da pivot e in cui si è invitati a identificarsi.
Anzi, McKay – più o meno consapevolmente – non esita con la sua coralità a confondere lo spettatore tra l’apparenza e la realtà. E così noi, semplici spettatori o presuntuosi critici, finiamo col rimanere spiazzati.
Quel potenzialmente ricco asteroide che con puntualità infine precipita sulla terra distruggendola e provocando la morte della maggior parte dei suoi avidi abitanti, va intesa come una metafora della fine del mondo (come era, ad esempio, il gigantesco maglio d’acciaio che squassava infine la sala dove si svolgeva Prova d’orchestra di Fellini) o va presa realisticamente come accade in tanti film catastrofici della fantascienza del secolo scorso? E quell’esplicito egoismo con cui i politici e i mass media, ma anche la gente comune, attendono quasi messianicamente il suo impatto con la Terra, è il risultato di un sogno o l’effetto inevitabile della stupidità umana?
A questi interrogativi, pur lucidamenti posti, McKay non risponde direttamente, ma anzi tende a confondere lo spettatore, facendo proprio il linguaggio visivo dei personaggi che sembra criticare, sortendone di fatto una notevole ambiguità di fondo nella quale tutto si può leggere. La critica come la complicità. La parodia del presente (compreso quello della pandemia) e la tentazione del lasciarsi andare al divenire dei modi di pensare ed essere più convenzionali (oltre che irrazionali).
Con il risultato che, durante lo scorrere del film, la tentazione di ridere sovente si raggela nel suo opposto e tutto finisce col rimanere nell’ambiguità. Ciò che si dice e come viene detto. La voglia di descrivere un mondo che assomiglia al nostro presente e una realtà che si modella su uno stile con cui questo mondo viene rappresentato.
Certo è che da un film come Don’t Look Up si esce con le idee più confuse di quelle con cui si era entrati. Ma nel costringere a questa incertezza di valutazione, consiste, forse, proprio la forza del cinema di McKay, che – consapevolmente o no, poco importa – ci induce (forse?) a prendere atto del caos in cui tutti viviamo e usa i propri divi (a quelli già citati va almeno aggiunto anche il britannico e sempre perfetto Mark Rylance, nei panni del consigliere scientifico della Presidente) come teste di ponte per penetrare in un mondo in cui tutto diventa ambiguo. Mescolando insieme ciò che appare e ciò che è. Nonché suggerendo di attendere McKay al varco di una prova di appello.
DON’T LOOK UP
(Usa, 2021) Regia e sceneggiatura: Adam McKay – soggetto: Adam McKay e David Sirota – fotografia:Linus Sandgren – musica: Nicholas Britell – scenografia: Clayton Hartley – costumi: Susan Matheson – montaggio: Hank Corwin.
interpreti e personaggi: Leonardo DiCaprio: (dott. Randall Mindy), Jennifer Lawrence (dott.ssa Kate Dibiasky), Rob Morgan (dott. Clayton “Teddy” Oglethorpe), Meryl Streep (presidente Janie Orlean), Jonah Hill (Jason Orlean), Cate Blanchett (Brie Evantee), Mark Rylance (Peter Isherwell). distribuzione: Netflix- durata: due ore e 18 minuti