di Massimo Lechi.
È bastato un cortometraggio di successo per fare della talentuosa Suzannah Mirghani uno dei volti del nuovo cinema sudanese. Il suo Al-Sit (2020), passato in concorso in festival prestigiosi quali Seattle e Tampere dopo l’anteprima internazionale a Clermont-Ferrand, ha infatti vinto premi e convinto critica e pubblico, mantenendo vivo l’interesse del circuito festivaliero nei confronti di una cinematografia giovane e combattiva, emersa dalle macerie del regime di Omar Al-Bashir nel 2019 tra lo stupore generale.
Prodotto in autonomia, con però un fondamentale contributo da parte del Doha Film Institute, Al-Sit è un corto di grande impatto, dall’innegabile forza visiva, capace di fondere con abilità realismo magico e critica sociale nel cangiante affresco di un Sudan arcaico e rurale in cui il destino della terra e dei suoi rigogliosi campi di cotone si lega simbolicamente a quello di Nafisa, dolce ragazzina data in sposa al figlio di avidi imprenditori di città. Sullo sfondo, la Al-Sit del titolo, una matriarca potentissima, laconica custode della tradizione.
La storia di Al-Sit costituisce inoltre la base del prossimo progetto di Mirghani, il lungometraggio Cotton Queen, recentemente presentato in fase ancora embrionale alla settima edizione di Qumra (Doha, 12-17 marzo 2021) insieme al gustoso Virtual Voice, corto sperimentale satirico realizzato dalla regista nell’ambito del Doc Lab del DFI a cura di Rithy Panh.
Tu hai una storia familiare molto interessante che intreccia Russia e Sudan.
Sì, ho un background misto: mio padre è del Sudan, mentre mia madre è russa. Ma, come amo dire sempre, ci sono letteralmente migliaia di me, di russo-sudanesi. È una conseguenza del fatto che, all’epoca, l’URSS invitava studenti dall’Africa e da tutto il mondo arabo. Offrivano loro delle borse di studio, e alla fine molti di questi giovani arabi e africani sposavano delle donne russe.
E sei nata in Sudan o in Russia?
Sono nata in Sudan. Ma, quando avevo circa due anni, ci siamo trasferiti a Londra. Dopo siamo ritornati in Africa, sempre seguendo il lavoro di mio padre, e abbiamo anche vissuto a Cipro e a Doha. È stata una vita da nomadi.
E ora sei stabilmente in Qatar.
Da quindici anni ormai.
C’è una grande comunità sudanese nel Golfo. Penso al tuo amico e collega Amjad Abu Alala, nato e cresciuto a Dubai.
Sì, è perché i paesi del Golfo sono sempre stati molto attraenti per i sudanesi, in particolare per via della grande richiesta di lavoratori stranieri.
Quando è nata la tua passione per il cinema?
Ho sempre amato il cinema. Dopo la laurea in Scienze della Comunicazione ho iniziato a occuparmi di pubblicazioni accademiche, ma l’idea di fare film era sempre lì, costantemente. Mi sono trasferita a Doha nel 2006 e tre anni dopo è stato creato il Doha Film Institute che, con i suoi workshop e le sue attività, mi è subito sembrato una grande opportunità. Si può dire anzi che la mia carriera cinematografica e l’affermazione del DFI siano proprio andate mano nella mano.
Di cinema sudanese si è iniziato a parlare nel 2019, a seguito della rivoluzione e dei successi a Berlino e Venezia di Suhaib Gasmelbari e di Amjad. Prima di allora, per i cinefili, il tuo paese semplicemente non esisteva. Avevi la sensazione di essere parte di una qualche tradizione cinematografica quando hai iniziato a occuparti di regia? Oppure all’epoca ti sentivi completamente sola con le tue idee e i tuoi progetti?
I miei primi corti, girati a Doha, non avevano nulla a che fare con il Sudan. Andare nel mio paese a fare cinema era un qualcosa che non potevo nemmeno immaginare, non mi è mai nemmeno passato per l’anticamera del cervello. Innanzitutto perché era proibito: la cultura cinematografica non era certo celebrata dal regime e, per un regista, ottenere i permessi era difficilissimo. Quando ho iniziato a pensare di scrivere un film per il Sudan e sul Sudan, poi, la rivoluzione non aveva ancora avuto luogo.
La caduta di Al-Bashir ha accelerato le cose.
Nella mia testa Al-Sit doveva restare una sceneggiatura e nient’altro. Ma con la rivoluzione tutto è diventato una possibilità. Mi sono resa conto che la mia poteva essere più di una semplice storia, che avrei potuto realizzare un vero film in Sudan.
La rivoluzione ha liberato le vostre ambizioni?
L’anno del successo del Sudan ai festival avevamo il morale alle stelle. C’erano tanto entusiasmo e tante, tantissime aspettative. Durante la lavorazione di Al-Sit si percepiva realmente quanto l’orizzonte delle persone si fosse ampliato e come per loro ogni cosa fosse possibile. Quindi sì, sono stati momenti molto eccitanti e di questo devo ringraziare i filmmaker sudanesi che mi hanno preceduto: Amjad, Suhaib, Marwa Zein e tutti gli altri.
Ti hanno preceduto di pochi mesi però. Quello che colpisce è proprio il fatto che vi siate tutti mossi quasi nello stesso momento, come in risposta a una chiamata collettiva.
Hai perfettamente ragione, è come se avessimo pensato tutti la stessa cosa allo stesso momento… Credo anche che sia stato determinante il sostegno economico che abbiamo ricevuto dalle istituzioni cinematografiche straniere. È grazie a questi fondi che abbiamo potuto realizzare i nostri film e, in un certo senso, mettere in piedi il cinema sudanese.
Ti giro la stessa domanda che ho fatto ad Amjad dopo l’uscita di You Will Die at 20: ti senti un pioniere? Una pioniera, anzi.
No, io seguo solo un cammino tracciato da altri… (sorride) Non mi sento affatto una pioniera. Però direi che stiamo costruendo tutto questo insieme.
Avete stili e storie diverse, ma in qualche modo procedete nella stessa direzione. È un modo corretto di descrivere questa fase storica del cinema sudanese?
Assolutamente sì. Nel periodo in cui abbiamo girato il mio corto, tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, siamo entrati in contatto con la Sudan Film Factory e ci siamo resi conto di come si sia effettivamente formato un gruppo di filmmaker.
Girare in Sudan che tipo di esperienza è stata per te?
Pur essendomene andata dal Sudan da piccolissima, il paese fa comunque parte della mia storia, della mia formazione. Però faccio parte della diaspora, e dunque il mio modo di vederlo e capirlo è influenzato dalle comunità sudanesi che si sono formate all’estero. Prima di Al-Sit non ero stata in Sudan per alcuni anni, perciò tutto mi sembrava nuovo, e non solo per via della rivoluzione. Era nuovo per me, a livello intimo, personale. Non penso che si possa dire di provenire da un posto preciso, perché quel posto cambia in continuazione.
Immagino che sia stato difficile trovare un linguaggio cinematografico adatto alle tue esigenze artistiche. Ma è curioso per me, da osservatore, che tu abbia scelto la via della fiaba. È un altro punto in comune tra Al-Sit e You Will Die at 20. Sia tu che Amjad avete guardato indietro, al folklore.
Anche perché, a livello cinematografico, in Sudan non abbiamo punti di riferimento: il cinema lo stiamo creando noi, ce lo stiamo inventando. Nel momento in cui fai un film di finzione su un paese, tendi a inserire tutti quegli elementi di cui hai memoria e che ti legano a quella realtà. Per me le favole sono una parte molto importante della cultura sudanese. Tutti i personaggi al centro del mio film – a cominciare da questa nonna che possiede la saggezza e che è più di una donna, una specie di essere antico – hanno un che di magico, perché magiche sono le storie che ricordo e con cui sono cresciuta.
Possiamo dire allora che il tuo è un Sudan idealizzato?
Decisamente. Un Sudan idealizzato, e un Sudan delle possibilità.
Da dove viene il personaggio di Al-Sit?
È un tipo di figura femminile che esiste in molte culture. In Sudan però queste matriarche hanno un ruolo molto speciale: controllano le altre donne della famiglia e si occupano inoltre dei matrimoni e delle circoncisioni. Noi abbiamo una lunga storia di matriarcato e di antiche regine che io, alla fine, ho cercato di racchiudere all’interno del piccolo vecchio corpo di Al-Sit.
Il pericolo di cadere nella trappola dell’orientalismo, dell’esotico cartolinesco lo avevi messo in preventivo?
Al momento il cinema sudanese non corre il rischio di scadere nel kitsch: è ancora troppo presto. Tutti noi stiamo imparando questa nuova lingua cinematografica, e il pubblico sta vedendo il Sudan sullo schermo per la prima volta.
Quella del realismo magico però è una scelta molto rischiosa. Va maneggiato con cura.
Credo che troppo spesso noi adulti tendiamo a dimenticare che è innanzitutto attraverso le favole che impariamo a vedere il mondo. Personalmente, adoro il realismo magico perché è il punto di incontro tra la realtà che si vuole filmare e la finzione che si cerca di creare. Per me il cinema è magia, sempre e comunque. Non importa se stai facendo un documentario o della fiction: anche al livello più elementare, il cinema mantiene sempre un qualcosa di magico nel modo in cui ti cattura e ti trasporta altrove. Non penso che cinema e magia possano essere separati.