di Aldo Viganò.
Astro nascente della cinematografia internazionale, la Corea del Sud è diventata in questi ultimi anni un punto di riferimento dei programmi dei festival mondiali e dei più prestigiosi premi riservati alla Settima Arte, concentrando intorno a sé l’interesse della critica (e di riflesso anche del pubblico) non solo per le sue opere più esplicitamente d’autore, quali quelli di Kim Ki-Duk (da “Ferro 3” sino alla sua prematura scomparsa), ma anche per i suoi film politici (e/o di “genere”) che da “Burning” di Lee Chang-dong in poi godono anche del plauso di Quentin Tarantino, al cui cinema sovente i suoi registi s’ispirano.
Non stupisce quindi che, soprattutto dopo il trionfo agli Oscar 2020 di “Parasite”, l’ammirazione per la Corea del Sud abbia cooptato anche un autore di fatto integralmente statunitense (ma oriundo per nascita) quale Lee Isaac Chung (nato a Denver nel 1978, si è laureato in cinema all’Università dello Utah, dopo di aver frequentato la facoltà di biologia a Yale), regista dell’autobiografico “Minari”, che inizia come un western di pionieri alla ricerca del “giardino dell’Eden” e prosegue poi come una commedia con conflitti coniugali inaspriti dai sogni di riscatto economico-sociale del capofamiglia e dalla presenza di una giovane madre, preoccupata soprattutto dal soffio al cuore di cui soffre il loro secondogenito.
Imboccata questa via famigliare, il film prosegue con l’arrivo dalla Corea della madre di lei, rimasta vedova a causa della guerra degli anni Cinquanta, e con le difficoltà a lieto fine, da parte di un po’ di tutti, ad adattarsi alla nuova situazione. Quello che emerge così è il tribolato manifestarsi di un nuovo sogno americano di cui sono protagonisti non solo coloro che vivono questa storia raccontata con garbo (pur privo di autentici guizzi inventivi), ma anche tutti i trentamila coreani che ogni anno si trasferiscono dalla madrepatria negli Stati Uniti.
Quello che ne nasce è, in fin dei conti, un film piccolo piccolo, quasi privato, che in modo ottimistico e consolatorio mette in scena un quadretto domestico.
Un film uso esportazione, che, comunque, ha garantito a Youn Yuh-jung di vincere l’Oscar come attrice non protagonista, nel ruolo della nonna che giunge negli Usa portando con sé il tradizionale peperoncino in polvere e le acciughe salate; nonché i semi di “minari” (una specie di crescione coreano) la cui crescita nel letto del torrente che si trova ai margini del terreno, sul quale il protagonista ha concentrato i suoi sogni di riscatto sociale, accompagna lo sviluppo narrativo del film, dal quale emergono solo pochi punti di forza drammaturgica. Le liti tra la coppia protagonista, certo, ma anche l’ictus di cui è vittima la nonna. E anche la non proprio limpida metafora della croce che, novello Cristo, il matto del paese porta sulle spalle lungo la strada che separa la roulotte della famiglia protagonista dalla Chiesa locale o quella (pur meno esplicita) dei pulcini che i coniugi Yi sono pagati per separarli dopo di averne individuato il sesso: le femmine cresceranno sino a diventare adulte mentre i maschi finiranno per la maggior parte nel vicino forno crematorio.
Così va la vita, sembra voler dire Lee Isaac Chung. Anche se poi da queste sue metafore apparentemente “grandi” egli ricava ben poco di più di un filmetto perbene che (identificandosi con lo sguardo del bambino) assume il sapore di una favola, la quale, in fin dei conti, ha poco a che fare – sia per tema che per estetica – con quel cinema coreano che viene prediletto dai festival internazionali; la differenza con i quali è facilmente riscontrabile non solo nei film “colti” di Kim Ki-Duk, ma anche (e forse soprattutto) in quelli in modo più esplicito di “genere”, come nel film dello sceneggiatore Park Hoon-Jung, il quale, passato alla regia, ha firmato recentemente una pellicola (“Night in Paradise”), vista fuori concorso all’ultimo festival di Venezia (e prontamente acquistato da Netflix), che proprio di Tarantino esaspera – sino al limite della involontaria parodia – l’uso del sangue e della violenza omicida.
Pur essendo due film molto diversi tra loro, sia “Minari” che “Night in Paradise”, testimoniano comunque nel bene e nel male la capacità del cinema coreano di muoversi all’interno del cinema di “genere”, senza però dimenticare mai di “contaminarlo” con riferimenti alla cultura del paese da cui i suoi autori provengono.
Se, da una parte, “Minari” si alimenta del modello western per raccontare sul filo dell’autobiografia la storia di una famiglia di “pionieri” coreani con due figli, dove lui è alla ricerca di una terra in cui costruire un “mondo nuovo”, mentre lei mal sopporta il cambiamento, che la porta lontano dai suoi sogni piccolo-borghesi e dalle proprie radici esistenziali; basta invece vedere anche solo poche immagini di “Night in Paradise”, per rendersi conto di avere a che fare con un “noir” entro il quale i due protagonisti (un gangster coreano e la figlia di un suo referente emigrato in Cina) si trovano loro malgrado stritolati nella morsa politica delle mafie russe e orientali, in cui dominano il tradimento e la vendetta, per accorgersi che in Corea del Sud c’è anche un altro cinema.
Ed è inutile sottolineare che questo modo di fare cinema seguendo il modello Tarantino, pur con tutte le sue esagerazioni e i suoi sanguinolenti compiacimenti, è per me molto più interessante e vitale del conformismo che in fin dei conti caratterizza le astuzie estetiche e il fondamentale conformismo di un film come “Minari”.
MINARI
(Minari, USA, 2020) regia e sceneggiatura: Lee Isaac Chung – fotografia: Lachlan Milne – musica: Emile Mosseri – scenografia: W. Haley Ho e Joshua Sampson – costumi: Susanna Song – montaggio: Harry Yoon. interpreti e personaggi: Steve Yeun (Jacob Yi), Han Ye-ri (Monica Yi), Alan Kim (David Yi, loro figlio); Noel Kate cho (Anna Yi, loro figlia), Youn Yuh-jung (Soon-Ja, la nonna), Will Patton (Paul), Scott Haze (Billy), Jacob Wade (Johnnie). distribuzione: A 24 – durata: un’ora e 55 minuti