di Massimo Lechi.
Ospite d’onore della settima edizione di Qumra (12-17 marzo 2021), James Gray non ha smentito la sua fama di oratore appassionato e di cinefilo dal sapere enciclopedico.
Stimolato dalle domande del moderatore Richard Peña, tra citazioni letterarie, aneddoti (il mortificante senso di umiliazione e fallimento provato durante il montaggio di Little Odessa), digressioni sulla pittura (l’amato Picasso e l’Ashcan School) e incursioni nella storia del cinema europeo (viene da chiedersi quanti altri registi americani siano oggi in grado di parlare con cognizione di causa di Suso Cecchi D’Amico) il cineasta newyorkese ha intrattenuto via Zoom i partecipanti all’evento industry del Doha Film Institute, ripercorrendo nel dettaglio una carriera ormai trentennale e affrontando inoltre con piglio deciso e ammirevole onestà intellettuale temi fondamentali come il posto dell’autore nell’industria cinematografica contemporanea, le tentazioni rappresentate dalle miniserie televisive e il rapporto con la tradizione. Un incontro brillante e piacevolmente informale che ha confermato l’assoluta centralità degli spazi riservati ai Masters of Cinema all’interno di Qumra.
La breve intervista che segue è stata realizzata via Zoom il giorno successivo alla master class di Gray.
In Italia e Francia, paesi in cui il tuo lavoro è tenuto in grande considerazione, vieni identificato da molti come l’ultimo regista classico americano. E, di conseguenza, come una specie di resistente. Ti riconosci in questa definizione?
Mettiamola così, Massimo: non mi sono mai classificato e non ho mai classificato il mio lavoro. Non è il modo in cui affronto le cose. Ho sempre cercato di fare del mio meglio, di creare qualcosa che fosse la più personale possibile… Però devo ammettere che a questo riguardo è come se avessi una personalità scissa: da una parte ho talvolta la sensazione che il cinema sia andato troppo avanti e dall’altra, certi giorni, ho come degli attacchi di megalomania psicotica durante i quali mi dico di restare fedele a me stesso e a ciò che sto facendo. Questo secondo lato, curiosamente, è diventato più forte durante il lockdown, riguardando con i miei figli i classici della Nouvelle Vague francese, del Neorealismo italiano, dell’epoca d’oro degli Studios, della New Hollywood – gli asiatici non ancora, perché voglio che siano un po’ più grandicelli. Ho visto cosa ha resistito alla prova del tempo e cosa invece è invecchiato male. Tutto ciò che fa affidamento sul mito e sul racconto tiene.
Cosa intendi per racconto?
La mia definizione di racconto è molto ampia. Spesso si confonde la storia con l’intreccio, ma sono due cose diverse. Ladri di biciclette è una grande storia: non ha particolari svolte narrative, certo, però è una grande storia.
Ma non trovi che, guardando indietro per creare qualcosa in grado di resistere nel tempo, ci sia il rischio di non essere in sintonia con la propria epoca, con il proprio potenziale pubblico e anche con le dinamiche dell’industria?
Non è un rischio: è un fatto. Si finisce fuori sincrono inevitabilmente. Ma il compito dell’artista, se posso definirmi tale, non è di essere in sintonia con il proprio tempo – semmai quello è il compito di chi scrive sul cinema, per riconoscere le tendenze in atto e capire in che direzione stiano andando le cose. Da regista non me ne è mai fregato nulla, non l’ho mai voluto. Quali sono le mie sensazioni più intime e come posso esprimerle attraverso un film? Questo cerco di capire e di fare.
Lo chiedo perché la mia sensazione è che molti tuoi colleghi americani non guardino mai indietro, ma siano anzi ossessionati dallo Zeitgeist e abbiano come unici obiettivi quelli di apparire à la page e di lisciare il pelo a pubblico e stampa. Negli Stati Uniti c’è tanto conformismo, si inseguono le mode e si producono film sui temi di stretta attualità. Ma il piacere del racconto e il piacere di fare cinema dove sono finiti?
Il problema di cui parli è riconducibile a due questioni molto grandi e importanti, cioè l’incapacità del sistema educativo americano di insegnare le discipline umanistiche in maniera decente e l’indifferenza nei confronti della Storia – Storia che molti, credendosi moralmente superiori, cercano di cancellare. Grazie a Dio recentemente si sono fatti anche dei passi avanti, però bisogna che le persone conoscano il passato, se non altro per poter contestualizzare le cose… Tu fai riferimento a una sorta di narcisismo che spinge a cercare di guadagnarsi delle medagliette al merito rilanciando idee e teorie alla moda, e che però è completamente in contraddizione con il vero lavoro di ricerca proprio dell’artista. Cosa c’è dentro di me? Cosa sento il bisogno di esprimere? Come posso fare qualcosa di davvero personale? Tutto il resto sono stronzate.
I problemi nascono nelle università, in parole povere.
Le università americane hanno fallito perché hanno scelto allegramente di asservirsi alle aziende e di formare professionalmente gli studenti anziché educarli. Io non voglio fare film per avere un “lavoro” e guadagnare tanti soldi – se fossi stato interessato a questo, non avrei fatto il regista. Mentre invece vedo che adesso c’è la tendenza – pur con qualche significativa eccezione, come il mio amico Matt Reeves o Chris Nolan, che ha davvero saputo offrire una lettura personale di Batman – a realizzare piccoli film indipendenti che non sono altro che domande d’impiego per produzione commerciali più grandi…
È esattamente quello che è successo con Chloé Zhao.
Purtroppo non conosco il suo lavoro… Mi hanno detto che è fantastica, ma non ho ancora visto Nomadland.
Subito dopo Nomadland ha girato un film di supereroi della Marvel, Eternals.
Di supereroi? (pausa) Beh, volendo è possibile portare una certa carica sovversiva anche in quel genere – ti ho appena fatto degli esempi in questo senso. Però, in linea generale, per quanto mi riguarda lo Zeitgeist non è interessante e non lo è mai stato. I Beatles, che erano degli studenti d’arte di Liverpool, non si sono uniformati allo spirito del loro tempo: lo hanno creato, e tutti quanti gli sono andati dietro. Come dico spesso, quello che è fresco oggi è avariato domani.
Nella master class di ieri hai detto anche un’altra cosa molto bella: la tecnica è importante per poter sviluppare la propria arte. Ora, secondo te esiste un effettivo legame tra la tecnica cinematografica e la cinefilia? Quando mi immergo nel tuo cinema capisco da dove vengono le tue immagini, mentre quando vedo questi film schiavi del presente di cui abbiamo parlato riconosco al massimo qualche riferimento alla tv e ai dibatti sui social… Non sono più film fatti di film, come lo sono i tuoi.
(lunga pausa) Non puoi sottovalutare l’influenza che i videogiochi hanno avuto sul cinema. È stata enorme. Forse è questo che vedi nei blockbuster americani di oggi… Per quanto riguarda l’indie, il discorso è diverso. Lì c’è stata quella che io chiamo un’influenza anti-mitologica, che poi non si è rivelata essere altro che un diffuso desiderio di ottenere dei diplomi di carineria. Invece di guardare alla società americana con occhio critico e denunciare le storture del nostro mondo, molti registi hanno sentito il bisogno di dimostrarsi moralmente ed eticamente corretti. Ma questa, di nuovo, non è la giusta posizione dell’artista. Un artista deve necessariamente parlare una lingua diversa da quella delle corporazioni e dei critici. Noi dobbiamo parlare con onestà e non possiamo preoccuparci della “polizia del pensiero”. Nei piccoli film indipendenti americani vedo una certa paura ad abbracciare il mito, che viene inteso come un qualcosa di anti-democratico, e anche un’ossessione per la mediocrità e per i perdenti che sa molto di autocommiserazione. Mentre il lignaggio cinematografico a cui hai fatto riferimento tu e questa idea di considerare i vecchi film come parte della propria storia vengono liquidati in quanto poco originali o addirittura volgari. Secondo me l’originalità è sopravvalutata. Pablo Picasso non era una persona originale: era un ladro straordinario.
Il fatto che le principali cinematografie occidentali abbiano messo da parte il mito ha reso il cinema una forma meno universale?
È una grande domanda… Io invecchiando ho abbracciato il mito sempre di più. Però dobbiamo darne una definizione estesa, e non limitarci a ricondurre ogni figura mitica a quella delineata da Joseph Campbell in L’eroe dai mille volti – maschio, bianco ecc. ecc. Non è una questione di sesso o di etnia: la protagonista di Una moglie, per esempio, è un personaggio incredibilmente mitico. Sappiamo che il mito è una nostra invenzione, ma è una fantasia che ci è necessaria per sopravvivere, funzionare e crescere. Per questo la condividiamo. E dunque dobbiamo accettarla, perché è bellissima e perché ci rende quello che siamo. E chi pensa di poter negare questa fantasia e di esserne al di sopra mi fa solo perdere tempo. Non importa quanto Jacques Derrida e quanto Jacques Lacan uno ha letto se poi il suo film preferito è La donna che visse due volte, un’opera che sposa il mito alla grande.
La tragedia della decostruzione.
La decostruzione deve iniziare con lo spettatore o con il critico. Ma se inizia già con l’artista, allora che senso ha? Se io regista decostruisco a monte raccontandoti che sono tutte comunque delle cazzate, per quale motivo dovrebbe importarti qualcosa di quello che faccio?