Di Pasquale Pede.
Se volete divertirvi un paio d’ore, “Spenser confidential” fa al caso vostro. Girato nel 2020 da Peter Berg, alla quinta fatica con Mark Whalberg, è un poliziesco action senza pretese ma più godibile della media.
Spenser qui è un ex poliziotto di Boston che si è appena fatto cinque anni di galera per aver aggredito un superiore, implicato nel brutale omicidio di una giovane attivista che si batteva contro la speculazione edilizia intralciando l’operazione. Il giorno stesso in cui ritorna libero il capitano che aveva preso a pugni viene massacrato a colpi di machete, e si ritrova principale indiziato. Ma un giovane poliziotto viene ritrovato morto nel SUV che aveva speronato l’auto del capitano. Così i sospetti si orientano su quest’ultimo, la sua morte considerata un suicidio, e il movente una storia di corruzione che lo implicava. Spenser però lo conosceva come un collega onesto, contatta la vedova disperata e capisce che c’è sotto qualcosa. Così comincia a indagare e ben presto si ritrova immischiato con una banda di assassini dominicani, i Trinitarios, con un killer colluso con poliziotti corrotti, con un’altra speculazione organizzata coi soldi del traffico di droga.
Sullo sfondo c’è una Boston dall’apparenza borghese ma percorsa da violenza e corruzione, un città cui l’attore ama ritornare.
Da qualche anno Whalberg, con la sua aria da brav’uomo ma col fisico scolpito dai pesi, si è ritagliato un suo posto nel novero degli attori action. Anche qui è un proletario – perso il distintivo cerca lavoro come camionista – all’apparenza bonaccione ma con un suo codice morale, che non sopporta le prevaricazioni dei potenti, e non esita a mettersi di traverso alle loro macchinazioni, incurante dei rischi da affrontare. Un eroe lower class come ci ha abituato a conoscere un certo cinema statunitense, il cittadino qualunque che a un certo punto decide di reagire forte solo della sua determinazione.
La storia potrebbe essere una delle tante di film consimili, un puro pretesto poliziesco per sequenze fracassone e scontri a mani nude pirotecnici, diciamo come un qualsiasi Statham movie.
Ma quel che rende gradevole questo film, in cui non mancano certo le colluttazioni d’obbligo, è un riuscito blend di sapori.
Il tono di fondo è scanzonato e autoironico, ma senza tarantinismi, affettuosamente aderente a un’estetica B. Ritmo serrato, dialoghi all’insegna della toughness, assai divertenti, figure di contorno azzeccate: Hawk, il colosso nero con la testa fra le nuvole ma all’occorrenza devastante, l’anziano amico istruttore di boxe Henry – uno strepitoso Alan Arkin -, Cyssy, la tostissima fidanzata formano con Spenser una squadra affiatata e a volte esilarante.
Convince anche il modo di tratteggiare l’eroe sdrammatizzandolo: Spenser è talvolta maldestro, le prende spesso, viene maltrattato dalla sua ragazza, addirittura messo alle strette da un cane da guardia come nei cartoni del gatto Silvestro, insomma non è tutto d’un pezzo. Naturalmente al momento buono si dimostra segugio infallibile e invincibile negli scontri a mani nude.
Si sente che dietro abbiamo una sceneggiatura di buon livello, e non stupisce visto che c’è lo zampino di Brian Helgeland, a cui dobbiamo film come Mystic River o L.A. Connfidential. Ma quello che ci interessa in questa rubrica è l’origine letteraria della pellicola.
Il film è tratto da un romanzo di Ace Atkins (sembrerebbe completamente riscritto dagli sceneggiatori) che riprende il personaggio creato negli anni 70 da Robert B. Parker.
Atkins è uno scrittore a cui la famiglia di Parker, morto nel 2010, ha affidato il compito di proseguire la serie di Spenser. Ciò conferma la notorietà di cui il personaggio ha goduto.
Negli Stati Uniti infatti Parker è considerato scrittore di grande importanza nel rinnovamento del genere hardboiled. Qui in Italia invece, anche se le storie di Spenser sono state in gran parte pubblicate nel Giallo Mondadori, non ne resta grande traccia, eccezion fatta per una vecchia serie di telefilm interpretati dal bolso Robert Urich.
Ma dove risiede l’importanza di questo autore?
Riprendendo mie recenti considerazioni su queste stesse pagine a proposito di Lawrence Block, ricordo che negli anni 60 il settore del genere hardboiled non godeva buona salute. Il genere hardboiled aveva perduto presa sul pubblico; i vecchi moduli narrativi, che avevano furoreggiato per quattro decenni nelle edizioni popolari, erano ormai consunti. Soprattutto, il personaggio del detective privato, mito per eccellenza nel genere, non sembrava più in grado di parlare al pubblico né di essere in sintonia con la società contemporanea. C’era la voga degli agenti segreti (Bond su tutti), oppure l’attenzione si era spostata sulla figura più istituzionale e contraddittoria del poliziotto (vedi McBain e Wambaugh), insomma il segugio disilluso e romantico alla Marlowe non aveva più il carisma di un tempo.
Ma nel decennio successivo una nuova ondata di autori si incaricò di recuperare il personaggio, proprio per consapevolezza della sua portata mitica.
Fra questi, Robert B. Parker è considerato in patria il più importante.
Nato nel 32 a Springfield, Massachusetts, combattente in Corea e professore universitario di letteratura, decide di dedicarsi alla scrittura esplicitando da subito le sue intenzioni (e ambizioni). La sua tesi di dottorato intitolata “L’eroe violento – L’eredità della Wilderness e la realtà urbana: uno studio sul detective privato nei romanzi di Dashiell Hammett, Raymond Chandler e Ross MacDonald”, sostiene che il detective della scuola hardboiled è l’erede della tradizione cavalleresca medievale, filtrata dalla tradizione americana dell’eroe del West. In numerose dichiarazioni Parker se ne professa continuatore e erede, affermando di essersi deciso a scrivere perché gli dispiaceva di non poter leggere più storie di quel tipo.. Chiamò il suo personaggio Spenser, nome di un poeta elisabettiano come per il Marlowe di Chandler, e lo costruì con evidente riferimento al mondo dell’autore californiano. Scrisse anche il completamento di Poodle Spring Story, un celebre racconto di Chandler rimasto incompiuto, nonché un’altra storia apocrifa di Marlowe coi personaggi di “Il grande sonno”.
Lo Spenser di Parker è un po’ diverso da quello del film. Ex pugile ed ex poliziotto, opera a Boston. E’ grande e grosso, il naso rotto, la battuta pronta e un codice morale privato che non corrisponde necessariamente a quello ufficiale. E’ legato sentimentalmente a Susan Silvermann, psicoterapeuta bella e intelligente. All’occasione si fa aiutare da Hawk, un afroamericano taciturno e letale, amico inossidabile dai tempi del ring. Nel complesso il personaggio è preso molto più sul serio di quello del film, e si pone come esplicito contraltare etico alla società in cui si muove.
E’ evidente l’operazione di aggiornamento che Parker effettua sul personaggio. Chiaramente orientato in senso liberal, il nostro è scevro da pregiudizi verso qualsiasi minoranza, non ama i potenti, spesso corrotti o decadenti, e tiene in alta considerazione il genere femminile.
In più è colto – spesso gli scappano citazioni letterarie -, è buon conoscitore di vino e cibo, e possiede una certa vocazione pedagogica, prediligendo adolescenti o ragazze perdute cui presta, oltre che protezione, attitudini paterne.
Siamo negli anni 70 – periodo in cui iniziano le sue storie – e sono gli anni dell’ultraliberismo che rovesciano i fermenti “rivoluzionari” del decennio precedente. L’edonismo reaganiano è alle porte, e Parker si confronta con questo mutato contesto da una prospettiva certo non conservatrice.
Così nei romanzi troviamo molta attenzione per i personaggi femminili, per i diversi orientamenti sessuali – pur essendo un macho Spenser è privo di pregiudizi anti gay – nonché per le più svariate minoranze etniche e culturali.
Le storie nel complesso sono godibili, il ritmo e la scrittura funzionano. L’intreccio mette in secondo piano gli aspetti dell’indagine poliziesca, e si rifà maggiormente agli schemi del western (coerentemente con la tesi dell’autore). Più che di inchieste si tratta di fughe e inseguimenti, di peregrinazioni nei vari contesti urbani, di scontri e di duelli a mano armata. C’è anche il tentativo di mettere a fuoco personaggi emblematici della società contemporanea. Attrici narcotizzate dal successo, adolescenti viziati dalla corsa al benessere, marginali vittime della spietatezza sociale, i clienti di Spenser sembrano soprattutto figure in cerca di valori e redenzione. Le vicende diventano così spesso degli itinerari di formazione, di cui il detective finisce col farsi carico grazie alla sua maggiore solidità morale (qui si potrebbe intravedere l’influenza del Travis McGee di John D.MacDonald).
Non ci possiamo esimere, tuttavia, dall’esprimere alcune riserve sull’operazione compiuta da Parker e dal notarne alcuni limiti.
E’ proprio il contesto ideologico statunitense di quegli anni quello che sembra surrettiziamente avere la meglio, contro le buone intenzioni dell’autore. Esaltazione dell’autosufficienza, dell’individualismo basato sulla forza, autocompiacimento narcisistico dei personaggi positivi risultano al dunque subalterni, più che alternativi, all’atmosfera culturale che Parker, con evidente buona fede, intende criticare.
Spia di questo paradosso è proprio il personaggio principale. Spenser è infatti è un po’ troppo. Troppo glamour, troppo sicuro di sé – nonostante affetti autoironia – troppo imbattibile, troppo politicamente corretto, troppo fedele negli affetti. Abbastanza sospetta anche l’enfasi sulla sua prestanza fisica e sulle virtù guerriere (pesi, running, allenamenti micidiali in palestra, abilità negli scontri a fuoco sono ampiamente descritti), che lo fanno somigliare agli eroi del cinema action del periodo. Sembra affine più a Stallone o a Bruce Willis che al disincanto da perdente dei Bogart o Mitchum (e forse rivela una subliminale filiazione da personaggi anni 50 come Shell Scott di Richard Prather). Nonostante gli sforzi, nelle storie non c’è dramma né amarezza, quanto piuttosto un’aria compiaciuta da telefilm ben confezionato, con inseguimenti e scazzottate al punto giusto, ma senza troppe sorprese. Le evoluzioni esistenziali dei personaggi sono superficiali e stereotipate, e quanto all’eroe, di contraddizioni non v’è neanche l’ombra.
Infine, in special modo, Spenser parla troppo. Ha sempre la battuta pronta, quando si affrontano questioni di principio si mostra granitico, non esita a pontificare, e risulta alla fine un po’ saccente. Dov’è finita la vecchia massima chandleriana per cui l’eroe hardboiled è il principio di redenzione necessario in un mondo governato dalla corruzione, che ha il suo codice morale ma non ne parla mai? E la dura laconicità degli eroi hammettiani? I dialoghi sono infatti sovrabbondanti, e sembrano echeggiare più il chiacchericcio dei film di quegli anni che l’eloquente asciuttezza dell’hardboiled classico. Non è una questione di nostalgia passatista, ma di risultati. Parker non lascia nulla al non detto, si preoccupa sempre di esplicitare, ma in tal modo – almeno a parere di chi scrive – perde in profondità proprio in ciò che vorrebbe ribadire, vale a dire la valenza etica insita nel genere.
Peraltro proprio questi aspetti da me criticati avranno un’influenza duratura sul genere, forse a riprova di una loro sintonia con gli umori profondi del pubblico americano. Dopo Parker li ritroviamo infatti in tanto hardboiled successivo, anche in autori di valore, come Crais e Lehane, ma anche in scrittori più complessi come Crumley o Lee Burke. I nuovi detective privati saranno invariabilmente loquaci, spesso spiritosi, pronti alla violenza sia di persona che attraverso alter ego dalla distruttività senza inibizioni (anche se a volte simpaticissimi, come il Clete Purcell che affianca Robicheaux nei romanzi sudisti di Burke).
Negli anni ’90, tuttavia, Parker pubblica un romanzo che permette di rimodulare queste osservazioni critiche.
Si tratta di “Passaggio di notte”, la prima storia di una serie differente cui si dedicò vent’anni dopo quella di Spenser (l’unica tradotta in italiano in una ormai introvabile collana di crime pubblicati dalla Hobby&Work). Sarà perché sono passati gli anni, sarà perché la traduzione è integrale e di buon livello – cosa che non sempre accadeva coi Gialli Mondadori – ma il romanzo mi pare migliore di quelli di Spenser.
Jesse Stone è un poliziotto della Omicidi di Los Angeles che comincia a bere in relazione al tradimento della moglie. Viene licenziato per questo, e riesce a trovare lavoro a Paradise, un piccola e tranquilla città del lontano Massachusetts. Una volta insediato, pian piano comincia a rendersi conto che la pacifica comunità in cui lavora nasconde parecchi scheletri. Con apparente noncuranza Stone cerca di scoprire cosa si nasconde dietro la facciata di perbenismo della cittadina, si verificano delle strane morti, un enorme culturista, sgherro del boss locale, lo prende di punta, e man mano i nodi cominciano a venire al pettine.
Niente di nuovo sin qui. Stone è un town tamer, un ripulitore di città alla Wyatt Earp (anche qui è evidente il legame di Parker con la tradizione western) e la vicenda si snoda su questa dialettica di scontro uno contro tutti, fino allo showdown finale, risolto peraltro molto sobriamente.
Ma con lui si respira un’aria differente, direi quasi eastwoodiana. Smaltiti il machismo e l’autocompiacimento che appesantivano il corredo di Spenser, con Stone abbiamo un duro in crisi, addirittura tradito dalla moglie, con dubbi e debolezze (l’alcool), autoconfinato in provincia per scappare dai propri fantasmi di fallimento, insomma un personaggio più umano e sfaccettato.
In più – finalmente! – Stone è laconico. Parla pochissimo, e quando lo fa coglie nel segno, ma è un’economia calcolata, serve a mantenere un guscio difensivo dietro il quale possiamo scorgere una vita emotiva complessa. I dialoghi risultano quindi più incisivi e efficaci – anche quelli di tipo sentimentale con la ex che inframmezzano i capitoli d’azione. E l’atmosfera complessiva della storia ha un sentore amaro, appena malinconico, che aggiunge spessore al tutto il romanzo.
Sembra quasi che dopo vent’anni dall’esordio Parker abbia dismesso un certo trionfalismo e sia approdato a una visione più asciutta e disillusa del genere. Veramente è un peccato che non siano mai stati tradotti gli altri volumi con Stone (che in tv ha avuto le sembianze di Tom Selleck).
Per la cronaca ricordiamo che Parker ha anche scritto western, tra cui “Appaloosa”, portato sullo schermo con buoni risultati da Ed Harris, nonché libri per bambini.
Se si dovesse scegliere fra le storie di Spenser, consiglierei “Pallidi re e principi”, “Sul filo della memoria” e “In cerca di Rachel Wallace”, ma i titoli si equivalgono più o meno tutti.
Robert B. Parker è morto per un infarto improvviso nel 2010.