di Massimo Lechi.
A cinque anni di distanza da Khanat el-Yak, torna dietro la macchina da presa Amir Ramses, cineasta egiziano giovane ma già piuttosto prolifico, molto noto per l’importante contributo dato, in qualità di direttore artistico, all’affermazione internazionale del festival di El Gouna, sul Mar Rosso.
Curfew, il suo sesto lungometraggio di finzione, è un melodramma scritto e diretto con mano sicura, tanto tradizionale nell’impianto da Kammerspiel piccolo-borghese quanto insolito nell’ambientazione (l’angosciante coprifuoco che bloccò Il Cairo nell’autunno 2013) e nei temi affrontati (la pedofilia e l’incesto). Un’opera dura, che ha colpito il pubblico e la giuria del quarantaduesimo Cairo International Film Festival (2-10 dicembre 2020), raccogliendo applausi e un meritato premio per la miglior interpretazione femminile, andato alla veterana Ilham Shaheen.
L’intervista con Ramses – avvenuta via Skype nelle ore successive alla presentazione in anteprima mondiale di Curfew – ha offerto una preziosa opportunità per ragionare sullo stato di salute del cinema egiziano e sulle difficili scelte alle quali sono chiamati i registi arabi desiderosi di imporsi oltre i confini del Maghreb e del Mashrek.
Da direttore artistico di El Gouna hai esitato prima di accettare il concorso al Cairo?
Be’, non avrei mai e poi mai potuto prendere in considerazione il mio film per El Gouna, essendo il responsabile della selezione! (ride)
Che ruolo ha avuto il Cairo Film Festival nella tua vita?
Per me è sempre stato un rifugio, un posto dove potevo discutere di cinema. Da studente ho imparato molto a questo festival. Inoltre The End of the Road, il mio primo film, aveva debuttato qui nella competizione araba quindici anni fa.
Da allora non sei più tornato?
No, mai. Di solito riuscivo ad andare a Dubai, ma a prima egiziana già avvenuta.
Te lo chiedo perché mi sembra che tu sia un regista che guarda molto al pubblico locale. Curfew – e lo dico in senso positivo – è un film totalmente egiziano.
Sinceramente, io non ragiono in questi termini: faccio film che mi piacciono, seguendo il mio gusto. Questa tua domanda ci potrebbe però far infilare in un discorso più lungo – e sicuramente più interessante – su come spesso i registi della nostra regione siano costretti ad abbracciare determinate forme ed estetiche solo per poter apparire più “internazionali” e appetibili per certi festival o piattaforme… Spesso ci sono effettivamente dei confini che separano i film che vorresti fare dai film che hanno una reale possibilità di essere apprezzati e capiti all’estero. E ti dirò una cosa che ormai ripeto da alcuni anni: si ha come l’impressione che il mondo non voglia veder emergere un nuovo Almodóvar o un nuovo Wong Kar-wai dal Medio Oriente.
È una questione che riguarda più lo stile che le storie.
Sì, si preferisce un regista impegnato politicamente che ricorre a uno stile semplice, quasi minimalista. Ma questo non è il cinema che amo, che mi interessa.
E non è nemmeno un tipo di cinema che c’entra molto con la tradizione egiziana.
La maggior parte dei miei punti di riferimento sono egiziani, ma non necessariamente legati al cinema più, diciamo, artistico. Certo, sono stato influenzato da Youssef Chahine e Yousry Nasrallah, ma anche dal cinema commerciale egiziano degli anni Settanta, al quale sono molto affezionato.
E che pochi in Europa conoscono. Torniamo al punto di partenza: in Occidente si ha scarsa familiarità sia con il cinema arabo classico sia con il cinema arabo commerciale contemporaneo. I film siriani, marocchini, libanesi o tunisini che arrivano ai festival europei e che vengono distribuiti all’estero sono tutti o occidentalizzati nello stile e nella costruzione drammaturgica o fintamente naïf. In Curfew invece tu hai abbracciato il melodramma senza intellettualismi: il pathos del tuo film è genuino e, a giudicare dalle prime reazioni, molto nelle corde del pubblico egiziano.
È una cosa che ha sorpreso anche me. Non avrei mai immaginato, il giorno della prima, di veder uscire gli spettatori così commossi, addirittura in lacrime.
I registi, soprattutto nel circuito festivaliero, ormai lavorano sullo spettatore in maniera opposta rispetto a quello che hai fatto tu: si punta o sullo shock o sul ricatto emotivo – o su entrambi.
Ed è una cosa che davvero non sopporto. Perché realizzare un film volutamente ricattatorio e arido per accontentare il pubblico di nicchia dei festival quando poi si finisce per scontentare un pubblico più ampio?
A questo proposito, l’uso che hai fatto della musica in Curfew è emblematico: l’hai messa nei momenti di maggiore tensione emotiva. Praticamente non si fa più nei “film seri” occidentali.
Se lo fa Almodóvar va bene, ma se lo fai tu no! Se non sei un grande nome, certe cose risultano meno attraenti: bisogna essere importanti perché la gente tolleri i tuoi caprices (in francese).
Non vorrei però limitare la conversazione al melodramma… Nel tuo film infatti affronti dei temi molto spinosi come la pedofilia e l’incesto. Soggetti non semplici.
Nel periodo in cui ho iniziato a scrivere la sceneggiatura, nel 2017, i media ne parlavano spesso: quasi ogni giorno c’era una nuova storia di molestie e violenze sessuali in famiglia. Di tutte queste vicende quello che sconvolgeva, oltre alla brutalità oggettiva dei racconti, era il silenzio che a lungo aveva coperto le violenze. In sostanza, quei crimini sessuali venivano a galla quando diventavano “qualcos’altro”, come ad esempio un omicidio – la figlia uccisa dal padre o dall’aborto clandestino voluto dalla madre. Non erano visti come dei crimini: serviva l’aggiunta di un altro crimine altrettanto atroce perché venissero considerati e raccontati come tali.
Un problema di omertà.
Sì, esatto. In una società in cui già c’era una grande difficoltà a parlare di sesso e di sessualità, parlare di incesto e di stupro di minori era impossibile: la gente si vergognava. È stato proprio questo silenzio a spingermi a scrivere Curfew.
Hai fatto delle ricerche specifiche per il film?
Ho letto delle raccolte di testimonianze – anonime, naturalmente. E ho voluto approfondire in particolare la questione della rimozione: il fatto che dopo una certa età le vittime dimenticassero le circostanze del crimine che avevano subito, o addirittura il crimine stesso, mi aveva colpito molto.
Un altro punto interessante è la collocazione temporale della vicenda. Perché proprio l’autunno del 2013? Quello di allora non è stato certo il solo coprifuoco della storia egiziana recente.
È stato però il più serio, il più inquietante. C’era già stato un coprifuoco nel 2011, ma all’epoca uscivamo comunque nonostante i divieti. Il coprifuoco del 2013 è stato molto più rigido. In quei giorni soffrivo di claustrofobia e mi chiedevo spesso come sarebbe stato restare chiusi in casa con qualcuno con cui non avevo voglia di parlare, di comunicare. Questa suggestione mi è rimasta in testa a lungo, finché poi non mi sono messo a lavorare sulla sceneggiatura e ho deciso di utilizzarla.
Il coprifuoco costringe i tuoi personaggi a confrontarsi: è la stasi forzata a far salire la tensione e a innescare il dramma. Avere un set unico – un grande appartamento borghese non ricostruito in studio – in cui gli attori si rincorrono e scontrano ha influito sul tuo modo di girare?
Per la prima volta in vita mia non ho fatto le prove con il cast. In passato ero solito lavorare con loro sul testo due o tre mesi prima dell’inizio della produzione. Stavolta ho invece deliberatamente scelto di non farli incontrare fino al primo ciak: volevo che i rapporti tra loro nascessero durante le riprese. E poi, avendo quasi esclusivamente una sola location, ho potuto girare la sceneggiatura in ordine cronologico.
È stato difficile per te?
Sì, è stata un’esperienza molto complessa.
Ti riferisci al metodo di lavoro o al contenuto drammatico della sceneggiatura?
Quel modo di lavorare era inevitabile: non si sarebbe potuto girare il film diversamente. Per me è stato particolarmente difficile perché, come regista, cerco sempre di crearmi una comfort zone, voglio sempre essere sicuro che tutto sia definito e che gli attori sappiano come pronunciare ogni singola battuta in anticipo – sono un po’ ossessivo-compulsivo, se capisci cosa intendo. Ma in Curfew niente di tutto ciò è stato possibile.
E gli attori come hanno reagito?
Si sono adattati molto bene, e penso che alla fine gli sia piaciuto parecchio. Kamel El Basha ha un background teatrale, quindi per lui non è stato un problema. Lo stesso per Ilham Shaheen, che ha fatto di tutto in carriera – cinema, teatro, radio e televisione. Forse i primi giorni le cose sono state un po’ diverse per Amina Khalil, anche lei una star in Egitto, ma legata a un metodo di lavoro più convenzionale. Da noi il modo di girare è molto dispersivo e c’è ormai una certa pigrizia: gli attori fanno dare le loro battute dagli assistenti quando si gira il primo piano di un collega, i registi spezzano le scene in continuazione perché vogliono riprendere una singola frase in una sola inquadratura e così magari tra una battuta e l’altra passano due ore perché il direttore della fotografia deve cambiare tutte le luci… Sul set di Curfew invece le scene erano come degli incontri di ping-pong.
Si dice che sui set arabi il regista deve occuparsi di talmente tante cose diverse da non avere, alla fine, il tempo necessario per concentrarsi sugli aspetti artistici del proprio lavoro. È davvero così, secondo te?
Sì, certe situazioni possono diventare davvero insopportabili per un regista, soprattutto quando non si gira in interni. Da anni, e non so perché, ci siamo abituati a lavorare con delle troupe enormi: su un piccolo set puoi trovare fino a venti elettricisti, tutti lì in piedi che ti guardano, e non sai chi è chi… Sono i danni provocati dall’industria dei grandi spot pubblicitari.
Parlando di industrie, come vedi la situazione del cinema egiziano?
È una domanda tosta, visto e considerato il momento storico. Direi che, più o meno, da noi si stanno producendo in piccolo tutti i fenomeni che dall’inizio della pandemia hanno colpito l’industria cinematografica mondiale…
Ma facciamo finta che il coronavirus non ci sia, che questa intervista si stia svolgendo nel gennaio 2020.
Innanzitutto il quadro produttivo generale manca di coerenza. È molto semplice realizzare grosse produzioni da cento milioni di lire egiziane e con star di richiamo impegnate in scene d’azione e inseguimenti automobilistici, così come è relativamente facile girare dei piccoli film artistici dal budget irrisorio e con nessuna garanzia di distribuzione nelle sale – “film da festival” li chiamiamo in Egitto, generalizzando un po’. Quello che invece dovrebbe essere la pietra angolare, il cosiddetto cinema medio, che ancora esiste in paesi come la Francia, è difficilissimo da finanziare. Ed è per questo che alcuni dei più celebrati registi egiziani fanno grande fatica a trovare i fondi: i loro film si collocano nel mezzo, non essendo né completamente commerciali né completamente artistici.
Ed è solo una questione di finanziamenti o anche di mercato? C’è ancora un pubblico per il cinema medio?
C’è ancora, sì. Ma bisogna considerare anche un altro problema: il monopolio della distribuzione. I produttori dei film commerciali ad alto budget sono spesso anche i proprietari dei cinema e delle compagnie di distribuzione. E il cinema medio, al contrario dei piccoli film da festival, non può essere finanziato solo con i contributi dei canali televisivi.
Ultimamente sono nate diverse piattaforme online nel mondo arabo. La consideri una svolta positiva?
Sì, le piattaforme potrebbero rappresentare la salvezza, specie per quei registi che attraverso i loro film sfidano la censura ufficiale. Però un cinema con la storia e il peso di quello egiziano non può basarsi su delle eccezioni. Oggi, che un cineasta come Nasrallah riesca a far produrre un suo film è un fatto straordinario, un’eccezione appunto. Chahine diceva sempre di essere riuscito a lavorare solo perché in Egitto si giravano centoventi film all’anno e dunque c’era spazio e denaro a sufficienza per una decina di produzioni come le sue… Ma se un’industria di film ne produce solo trenta, come succede adesso da noi, tutto diventa più complicato.