CAIRO IFF 2020 – Intervista ad Arab e Tarzan Nasser

di Massimo Lechi.

Salutato con favore dalla critica a Venezia 77 e vincitore in autunno di numerosi premi tra Canada, Turchia e Spagna, Gaza Mon Amour, il secondo lungometraggio dei gemelli palestinesi Arab e Tarzan Nasser, a cinque anni di distanza dall’apprezzato Dégradé (2015), ha avuto il suo momento di gloria anche in Egitto, al quarantaduesimo Cairo International Film Festival (2-10 dicembre 2020).

La menzione speciale annunciata dal presidente di giuria Aleksandr Sokurov alla cerimonia di chiusura ha infatti ancora una volta ricompensato gli sforzi di questa insolita coppia di artisti prestati al cinema e dei loro ispirati interpreti, co-autori a tutti gli effetti di una commedia sentimentale dolceamara astuta e innegabilmente accattivante, capace tanto di sedurre la stampa occidentale quanto di abbattere le comprensibili resistenze del pubblico di lingua araba. Sullo sfondo di una Gaza schiacciata tra Hamas e l’esercito israeliano, la storia dell’impacciato pescatore sessantenne Issa (Salim Dau), cui la casuale scoperta in mare di una statua di Apollo dà finalmente il coraggio di avvicinare la malinconica vedova Siham (Hiam Abbass), guarda con una certa intelligenza alle contraddizioni e ai paradossi della vita palestinese nei territori occupati e riesce a imporsi grazie a umorismo sottile e immagini levigatissime.

Romanticismo, bronzei dei in erezione e oscure manovre politiche in una terra martoriata: Gaza Mon Amour ha di che accontentare molti. Forse persino l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences hollywoodiana.

Gaza Mon Amour rappresenterà la Palestina nella corsa ai prossimi Oscar. Un bel risultato per due registi al secondo film.

Tarzan Nasser: E’ un grande onore, certo, ma questo è appena un primo passo. Speriamo di arrivare in fondo, alla nomination. Inshallah.

Arab Nasser: Siamo solo all’inizio.

Vorrei riportarvi all’origine di Gaza Mon Amour, a ciò che vi ha spinto a scrivere il film. Suppongo che la fonte di ispirazione sia stata il famoso ritrovamento dell’Apollo da parte di un pescatore palestinese nel 2013.

TN: Sì, è esattamente quello l’episodio che ci ha ispirato. Ci aveva colpito il fatto in sé, straordinario: una statua di Apollo che emerge dal mare al largo di Gaza. Abbiamo iniziato a pensare a come sfruttarlo, e a come legarlo a una possibile storia d’amore.

Un fatto straordinario ma anche assurdo. Tutto quello che capita a Gaza ha sempre un qualcosa di paradossale e di metaforico, che rimanda all’assurdità dell’occupazione.

TN: A Gaza si vive così, come si vede nel film. L’assedio dura ormai da più di quattordici anni, eppure le persone sono vive, respirano, lavorano e combattono ancora per i loro diritti e per la loro libertà.

Voi, però, Gaza l’avete lasciata.

TN: Sì, siamo partiti nel 2012.

E non ci siete tornati per realizzare i vostri film. Gaza Mon Amour è stato girato tra Giordania e Portogallo.

TN: No, perché è difficilissimo ottenere dei permessi e girare a Gaza, soprattutto se si vuol fare del cinema di finzione. Non ci sono garanzie di riuscire a lavorare in Palestina. E c’è anche un problema di libertà: non è affatto facile affrontare certi argomenti.

C’entrano le autorità locali? E’ anche da loro che nascono i problemi?

TN: In un certo senso sì, ma è principalmente una questione di attrezzature. Anche volendo lavorare in segreto, gli israeliani non ti permetterebbero di entrare a Gaza con il materiale necessario. E poi come si possono fare delle riprese con il rumore dei droni che attraversano in ogni momento il cielo?

L’ennesimo paradosso della situazione palestinese: per fare un film su Gaza bisogna ricostruirla da un’altra parte.

TN: Sì, ma a noi è piaciuto ricostruire la città, la Gaza che conosciamo così bene.

Siete anche scenografi.

TN: Certo. Quando si tratta di Gaza, non ci fidiamo di nessun altro. E’ stato divertente ricrearla altrove, ma anche triste. Perché diavolo non possiamo girare nella nostra terra? Fanculo l’occupazione e il governo…

Sei un anarchico, Tarzan.

TN: Anarchico?

AN: Anarchiste… (a TN, in francese)

TN: Ah, forse! Un po’, almeno… (ride)

Da quanto tempo vivete in Europa?

TN: Dopo aver girato Dégradé siamo venuti in Francia per finire la post-produzione. Ci è piaciuta e ci siamo rimasti.

Lo sradicamento sembra essere il destino di quasi tutti gli artisti palestinesi.

AN: Questo è il loro obiettivo: allontanarci dalla Palestina per poter avere tutto il paese per sé.

Immagino stiate parlando degli israeliani… Ma allontanandovi dalla vostra terra non fate esattamente il loro gioco?

AN: Lascia che ti dica una cosa… Io vengo da Gaza, ma Gaza non è la Palestina: molto spesso ci si dimentica che c’è anche un’altra parte, la Cisgiordania. Bene, perché non sono andato lì a fare i miei film? Perché non potevo. Perché non mi è permesso. Non sono mai andato in Cisgiordania: ho fatto richiesta alle autorità diverse volte, ma non mi è mai stato concesso.

E se tu volessi fare un film ambientato in Cisgiordania?

AN: Dovrei andare sul confine, in Giordania, ad Amman.

Recentemente il regista di 200 Meters, Ameen Nayfeh, mi ha raccontato di come abbia dovuto mandare i suoi assistenti a girare delle scene di raccordo in territorio israeliano perché non aveva il permesso di attraversare il confine.

TN: Ci sono molte altre storie che nemmeno puoi immaginare.

Tutte assurde.

AN: E’ l’occupazione, amico mio!

TN: E credo che in Gaza Mon Amour siamo stati molto onesti nel raccontare questa situazione. Pur non volendo attaccare direttamente Israele, abbiamo fatto in modo che l’occupazione israeliana si sentisse in ogni singola scena.

Si vede, anche. Nelle case dei vostri personaggi, nelle loro botteghe…

TN: E si percepisce dentro, nei loro sentimenti e nel modo in cui li vivono. Sono persone infelici che vorrebbero vivere una vita normale, però non possono farlo. E il problema non è solo Hamas: è anche l’occupazione. Gli abitanti di Gaza non sono liberi di andare da nessuna parte.

AN: E’ come restare bloccati in una gabbia con dentro un leone. E chi ha la chiave?

In entrambi i vostri film siete stati abbastanza duri con Hamas e le autorità palestinesi.

TN: Non è che prima di iniziare un film ci diciamo: ‘voglio parlare di Hamas, voglio parlare di Israele.’ Ci interessano le persone, quelle reali. In questo momento, però, a Gaza è in corso un grande conflitto con Hamas, che io ho criticato spesso – essere contro Israele non significa stare con Hamas.

AN: Noi stiamo con la gente. Che soffre a causa di Israele e a causa del governo palestinese, dell’autorità in generale.

Sia in Dégradé sia in Gaza Mon Amour avete raccontato dei microcosmi il cui equilibrio viene sconvolto dall’entrata in scena improvvisa di elementi esterni – nel primo un leone, nel secondo la statua di Apollo. E’ una soluzione narrativa che pare piacervi molto.

AN: E’ un modo per attirare il pubblico, per sedurlo e per costringerlo a vedere le persone reali che sono dietro alla storia. L’umanità è sempre più importante di questi elementi estranei che inseriamo nel racconto.

Domanda sciocca: perché avete legato il ritrovamento dell’Apollo proprio a una storia d’amore?

TN: Perché no? A Gaza c’è amore. Solo che le persone hanno un loro modo particolare di esprimerlo.

Ed è l’ambiente a influenzare queste storie.

AN: Come dappertutto.

TN: Ciò che si sa di Gaza tramite i media è quasi sempre collegato alla politica – e a me la politica non interessa molto. Noi cerchiamo di mettere in evidenza parti di quella realtà che sono poco conosciuti. Le donne di Gaza, per esempio: non sono solo madri di martiri o di prigionieri. Ci sono tanti tipi di donne, belle e brutte, buone e cattive, che vogliamo raccontare – e per le quali vorremmo che gli spettatori provassero affetto e compassione.

E’ stato complicato per voi mettere a fuoco il vostro stile di regia? Oggi il cinema palestinese viene identificato soprattutto con cineasti tra loro diversissimi come Elia Suleiman e Hany Abu-Assad, dai quali però siete esteticamente piuttosto lontani. Faccio fatica a pensare che non vi siate mai confrontati con questi modelli.

TN: Ma vedi, io non mi considero un regista… Io e mio fratello abbiamo studiato arte, pittura. Quando siamo entrati in questa industria, abbiamo sentito che avremmo potuto continuare a dipingere attraverso i film.

AN: Inoltre non pensiamo al cinema come a un terreno di battaglia, di scontro. Noi non siamo mai entrati in competizione con altri registi. Rispettiamo tutti – sempre grande rispetto per ogni esperienza di vita. Ma il nostro scopo è di divertirci e di divertire.

Vedo che le vostre visioni del cinema e della vita coincidono. Temo comunque di dovervi chiedere come fate a lavorare insieme…

AN: E’ una domanda che ci fanno ogni volta! (ride)

TN: Noi facciamo tutto insieme. Abbiamo gli stessi punti di vista – lo stesso punto di vista, anzi. Questo ci permette di procedere più velocemente nel lavoro, con maggiore sicurezza.

E siete sempre d’accordo su ogni aspetto del film?

TN: A volte litighiamo per dei dettagli – piccole cose.

Anche se nella storia del cinema ci sono diversi esempi illustri, è difficile accettare razionalmente l’idea che due individui che hanno la responsabilità condivisa di qualcosa di talmente complesso come un film siano sempre in pressoché totale armonia.

AN: E’ sempre stato così. Da quando siamo nati.

 

 

 

Postato in Festival.

I commenti sono chiusi.