di Renato Venturelli.
Sessant’anni, sceneggiatore televisivo di lunga data, autore con Winding Refn dello script del “Pusher” di venticinque anni fa, il danese Jens Dahl dirige il suo secondo film dopo “3 Ting” (2017) e riesce a realizzare un film di genere apparentemente senza grandi ambizioni ma asciutto ed efficace come poteva essere un post-Hammer d’altri tempi.
La vicenda mescola mad doctor e carcerario, elisir di giovinezza e revenge, ma senza stucchevoli giochi di secondo grado: “Breeder” inevitabilmente incontra nella sua strada diverse formule codificate, ma non cede mai alla facile tentazione di ostentare quelle ibridazioni di genere che hanno a lungo tediato con la loro presuntuosa banalità.
Al centro, una ricercatrice che sta mettendo a punto un sistema per ritardare l’invecchiamento delle cellule, ma è ancora distante da buoni risultati per quanto riguarda le donne. E quando la compagna del suo socio in affari ficca troppo il naso nel suo laboratorio, la sequestra, la trascina nei sotterranei, la consegna ai suoi due aiutanti sadici e criminali – il Cane e il Maiale – rinchiudendola accanto a decine di altre ragazze-cavie, rapite e incarcerate dietro le sbarre delle gabbie accanto ai tavolacci di tortura.
Una delle immagini-simbolo del film, quella di una donna che compare come un fantasma dietro un vetro chiedendo disperatamente aiuto, riguarda appunto una di queste vittime, che riesce a fuggire dal laboratorio, bussa alla casa del socio perbene e della sua compagna, crede di essersi messa in salvo ma viene riconsegnata alle sevizie del laboratorio di ricerca, dove i resti dei corpi e i cadaveri dei neonati vengono ammassati in grossi bidoni dell’orrore. E prima o poi c’è anche l’inevitabile rivolta delle donne, che riescono a uscire dalle loro celle per dare l’assalto a un sistema capace di unire imprenditorialità capitalista e follia scientifica, ma anche più sfuggenti tortuosità interiori.
“Breeder” lascia del resto intendere varie stratificazioni tutt’altro che banali. E se da una parte guarda agli aspetti sociali della faccenda, dall’altro tenta di affondare nelle ambiguità dei personaggi e nei tortuosi rapporti tra vittime e carnefici, trasportando nelle convenzioni estreme del racconto thriller-horror i piccoli indizi della vita sessuale quotidiana.
Il tutto resta però mimetizzato dietro l’impeccabile confezione del puro prodotto di genere, condotto a ritmi serrati senza nemmeno lesinare i dettagli torture-porn. E la sua forza sta nel modo in cui i vari aspetti si risolvono entro l’ambito di un classicissimo thriller-horror sulle follie della scienza al servizio del capitale: cinema assolutamente tradizionale, anche nella sua articolazione su più strati tipica dei generi classici.