Di Massimo Lechi.
Dopo i successi a Venezia, El Gouna e Salonicco, è proseguita a Doha la marcia trionfale di 200 Meters, promettente opera prima del giovane regista palestinese Ameen Nayfeh. Un dramma teso, onesto e apprezzabilmente lontano da molti luoghi comuni del cinema arabo contemporaneo, frutto di un complesso sforzo produttivo che ha unito Medio Oriente ed Europa – l’italiano Francesco Melzi d’Eril figura come produttore esecutivo. Un road movie scritto e diretto con mestiere e intelligenza, che sin dal felice debutto alle ultime Giornate degli Autori ha saputo far appassionare pubblico e critica alla storia di Mustafa (il divo Ali Suliman), cocciuto operaio palestinese che un giorno, per entrare clandestinamente in Israele e raggiungere il figlio vittima di un incidente a poche decine di metri di distanza dal suo villeggio dall’altro lato del muro in Cisgiordania, si trova a dover affrontare un pericolosissimo viaggio tra posti blocco, contrabbandieri infidi e poveri cristi in cerca di lavoro oltre confine.
L’ottava edizione dell’Ajyal Film Festival (18 – 23 novembre 2020), l’evento cinematografico organizzato nella capitale del Qatar dal Doha Film Institute, ha visto Nayfeh e la sua produttrice May Odeh conquistare l’Audience Award e il riconoscimento per il miglior lungometraggio nella sezione Bader. Il tutto a poche ore dal sorprendente annuncio della designazione di 200 Meters come rappresentante della Giordania nella corsa all’Oscar per il miglior film internazionale.
Congratulazioni per le buone notizie arrivate dalla Royal Film Commission.
Sto ancora cercando di metabolizzare la notizia. Io che rappresento un paese agli Oscar… Mi pare incredibile. Continuo a ricevere messaggi di amici e membri della troupe che mi chiedono cosa diavolo stia succedendo! (ride)
La Giordania è tra i paesi che hanno finanziato il tuo film. Gli altri sono ovviamente la Palestina, poi il Qatar, l’Italia e la Svezia. Questa complessa co-produzione mi pare rispecchi bene la natura diasporica del vostro cinema e dimostri anche come sia sostanzialmente impossibile per un regista palestinese reperire fondi adeguati restando in Medio Oriente.
Sì, quello che dici è giusto. Ma c’è un’altra ragione per cui rappresento la Giordania: ho la doppia cittadinanza. In Giordania ho trascorso parte della mia infanzia e ho frequentato una scuola di cinema, il Red Sea Institute of Cinematic Arts.
Però 200 Meters è un lungometraggio palestinese a tutti gli effetti, e per di più profondamente radicato in una realtà molto specifica della Palestina: quella di chi vive nei pressi della barriera di separazione che divide la Cisgiordania da Israele.
Sì, e infatti ti dirò di più: nei quasi dieci anni che ho impiegato a lavorare al film, ho sempre temuto che qualcun altro avrebbe raccontato questa realtà così particolare. La storia è lì, davanti agli occhi, e sono rimasto davvero sorpreso che nessun regista palestinese abbia voluto affrontarla.
Immagino che nel film ci sia anche una componente autobiografica.
C’è, assolutamente. Mia madre viene da una cittadina palestinese, Ar’ara, che adesso si trova dall’altra parte, in territorio israeliano. Da quando il muro è stato costruito, io non ho più potuto vedere la mia famiglia. Non ho nemmeno potuto dire addio a mio nonno: ho scoperto che era morto mentre mi trovavo a un posto di blocco.
Non mi sorprende che tanti registi e scrittori palestinesi preferiscano raccontare in maniera un po’ edulcorata il muro e i danni materiali e psicologici che ha provocato negli anni. Conviverci quotidianamente deve richiedere già fin troppe energie.
Il film per me è stato molto faticoso. Mi sono detto più volte che non ce l’avrei mai fatta, che non avrei trovato persone disposte a investire del denaro. E’ stata una vera avventura.
Anche a livello logistico. I problemi dei tuoi personaggi sono gli stessi con cui tu e la tua troupe avete dovuto fare i conti.
Verissimo. L’intero film, per capirci, è stato girato sul lato palestinese del muro, in Cisgiordania, a parte alcune riprese di raccordo di strade israeliane. E lì io, il regista, non ho potuto essere presente: in Israele ho dovuto mandare il mio direttore della fotografia, il mio primo assistente e due altri membri della troupe che avevano i permessi o dei passaporti stranieri.
In totale quanto sono durate le riprese?
Eh, è curioso: più di sette anni per sviluppare il film e poi solo ventidue giorni per girarlo.
Un reportage di guerra, praticamente.
Quasi. Anche se alla fine abbiamo ottenuto i finanziamenti necessari, il budget era molto piccolo. Avevamo trentacinque location, ma potevamo permetterci solo ventidue giorni, secondo la produzione. Mi sarebbe molto piaciuto che qualche documentarista ci avesse ripreso mentre giravamo: è stato folle.
Non so se sia una domanda pericolosa, ma te la faccio comunque: hai mai attraversato di nascosto il confine come il tuo protagonista Mustafa?
(pausa) Neanch’io so se sia pericoloso rispondere… Però sì, l’ho fatto. E’ così che molti palestinesi entrano in Israele. Quello che si vede sullo schermo è frutto tanto di mie esperienze personali quanto di un grosso lavoro di ricerca.
Secondo te perché è stato così difficile far partire il film?
Quando ne parlavo mi chiedevano in continuazione quale fosse la necessità di raccontare questa storia: ‘perché un altro film dove si vede il muro? Cosa c’è di nuovo?’ E adesso invece gli spettatori, persino quelli arabi in paesi come l’Egitto, a fine proiezione mi si avvicinano per dirmi che per la prima volta capiscono cosa rappresenti concretamente questa barriera di separazione e come la sua presenza stia influenzando la vita quotidiana di noi palestinesi. La semplicità con cui i personaggi, i loro bisogni e il loro viaggio sono raccontati credo inoltre sia piuttosto rara. 200 Meters è appunto una storia semplice, umana.
Quando penso alla Palestina, vedo una mappa. Visualizzo mentalmente i confini disegnati, la linea tratteggiata che delimita la Cisgiordania e le macchie di colore degli insediamenti dei coloni. Guardando il tuo film ho avuto la chiara percezione di come i confini, e il muro in questo caso, separino le persone.
Il muro sta tagliando in due ponti, città e decine di migliaia di famiglie. E questo non si trova nella rappresentazione che viene data della Palestina di oggi.
Una rappresentazione troppo spesso superficiale – almeno al cinema.
Vedendo anni fa Omar di Hany Abu-Assad, ricordo di aver pensato: ‘questo non è possibile, nessuno salta sopra il muro per andare a trovare la sua ragazza!’ (sorride) I tutor palestinesi che mi seguivano nella fase di scrittura erano sorpresi che volessi mettere al centro del film dei normali lavoratori: ‘perché durante il viaggio non inserisci una donna che viaggia per incontrare il fidanzato oppure un vecchio che vuole andare a morire nel villaggio natio da cui era stato cacciato?’
Il cliché è una facile scorciatoia.
Certo. Ma io volevo raccontare qualcosa di reale, di genuino.
Parecchi film palestinesi sembrano pensati principalmente per l’estero, per i paesi non arabi.
Sì, è esattamente così. Oggi abbiamo la tendenza a scrivere per raggiungere il pubblico occidentale, più che per valorizzare le nostre storie.
Altro punto interessante: ciò che mostri in 200 Meters per molti sarebbe materiale da documentario. Hai mai pensato di non ricorrere alla fiction?
Mi era stato fortemente consigliato di girare un documentario, ma dall’inizio ho sentito che per esprimere tutto quello che avevo da dire fosse meglio un racconto di finzione. Il mio professore all’accademia ci diceva sempre: ‘se volete fare un film che abbia successo fuori dal circuito dei festival, pensate al cinema di genere.’ Il mio obiettivo era creare qualcosa che potesse essere visto e goduto nelle sale da spettatori comuni, e che potesse essere apprezzato non solo in quanto film sulla Palestina.
Ed è per questo che hai scelto una struttura narrativa da road movie? Anche se va detto che il tuo film inizia come dramma familiare.
Nella prima stesura della sceneggiatura era un road movie sin dalla prima scena. Poi, lavorandoci a lungo, mi sono reso conto che il viaggio non avrebbe avuto senso se lo spettatore non si fosse prima affezionato al protagonista. E per far sì che ci si potesse affezionare a Mustafa, era necessario iniziare con la sua famiglia. 200 Meters parla di una famiglia, non di un viaggio.
Ti serviva anche un attore molto carismatico. Da qui la scelta di Ali Suliman, una grande star araba.
Il primo film palestinese che ho visto al cinema è stato Paradise Now. Adoravo il personaggio di Ali, e da allora ho seguito la sua carriera con attenzione. Mentre scrivevo avevo sempre lui in testa. Lo vedevo come Mustafa: era l’attore giusto. Quando ci siamo incontrati due anni prima delle riprese, gli ho detto chiaro e tondo: ‘ho scritto un film per te.’ Non è servito altro! (ride)
Hai avuto problemi a far rendere gli attori non professionisti che lo affiancavano nel cast?
Mentirei se dicessi che non ho avuto difficoltà o che non ho ricevuto aiuto. Voglio essere onesto con te: sono stato sostenuto molto da Ali e da un altro attore che seguiva i più giovani sul set. E’ stato un vero lavoro collettivo.
Leggevo che Ali Suliman, a differenza del suo personaggio, ha il passaporto israeliano.
Ce l’ha, ma non per scelta… Gli è stato imposto. Però c’è anche dell’ironia in questo: in occasione della Mostra di Venezia, per raggiungere l’Italia io ho impiegato trentacinque ore, mentre lui ha preso un volo diretto da Tel Aviv. E’ la stessa storia del film, come vedi.
Passiamo alla misteriosa filmmaker tedesca Anne, interpretata dalla brava Anna Unterberger. Garantisce un punto di vista esterno sulle vicende dei personaggi palestinesi, ma è anche molto funzionale a livello narrativo.
All’inizio Anne era effettivamente solo un elemento funzionale alla svolta drammatica del racconto, però col tempo ho capito che poteva rappresentare qualcosa di più. E’ importante, nel film, il fatto che lei venga accettata dal resto della comitiva, e che la sua presenza venga percepita in maniera diversa in base a quello che a mano a mano gli altri scoprono del suo background. E’ davvero tedesca? E’ davvero di origine palestinese? O è israeliana? La scena in cui i viaggiatori si interrogano sulla sua possibile appartenenza al Mossad è buffa ma plausibile: molti palestinesi, quando vedono uno straniero in una situazione insolita, pensano che sia una spia. Poi è sempre lei ad alimentare lo scontro tra Mustafa e il giovane Kifah, interpretato da Motaz Malhees. Uno scontro generazionale, il loro, che ha a che fare con la situazione politica in Palestina e i loro modi apparentemente opposti di affrontarla.
E’ lei a permettere a Mustafa di attraversare il confine.
Su questo punto ci sono state delle discussioni piuttosto accese, specie con i giornalisti arabi. ‘Ma come, mostri tutto questo viaggio a ostacoli lungo il muro e poi fai risolvere la storia a una che forse è israeliana?’, mi chiedono. Però, per come la vedo io, è Mustafa a usare Anne per raggiungere l’ospedale e vedere suo figlio. E alla fine i problemi di Mustafa restano, non sono affatto risolti.
Da 200 Meters e altri film recenti di tuoi connazionali si ricava l’impressione di storie costruite su dolorosi paradossi. Sembrate anzi proprio voler rimarcare quanto l’intera esperienza palestinese sia intrinsecamente paradossale.
Sono felice che tu sia arrivato a una conclusione simile, perché è esattamente quello che intendevo mostrare. Noi palestinesi viviamo una situazione molto paradossale e contraddittoria, in cui le cose non sembrano mai avere senso.
E fare film può aiutare?
Sì, aiuta. Considerando quanto tempo sono stato ossessionato dai pensieri del muro e della separazione, ora mi sento enormemente sollevato. Riguardo alla mia famiglia, credo che ora tutti loro sappiano quanto sono importanti per me.