di Massimo Lechi.
Preceduto da recensioni lusinghiere e dall’accoglienza calorosa ricevuta a Visions du Réel e in altre importanti manifestazioni cinematografiche internazionali, è stato proiettato in prima mediorientale all’ottava edizione dell’Ajyal Film Festival (18 – 23 novembre 2020) Their Algeria (Leur Algérie), l’eccellente opera prima di Lina Soualem.
Figlia dell’attore franco-algerino Zinedine Soualem e della stella palestinese Hiam Abbass, cresciuta in un ambiente artistico, la giovane filmmaker francese si è avvicinata al cinema lentamente, quasi con circospezione, come attrice in piccoli ruoli in produzioni mediterranee quali I Still Hide to Smoke di Rayhana Obermeyer e You Deserve a Lover di Hafsia Herzi. La decisione di esordire nel documentario, per lei, è poi arrivata quasi da sé, come naturale conseguenza del terremoto familiare scatenato da un evento del tutto inaspettato: la separazione, dopo oltre sessant’anni di matrimonio, dei suoi nonni paterni Aïcha e Mabrouk, una coppia di algerini stabilitisi a Thiers, nel cuore della Francia, negli anni Cinquanta.
Spinta dal desiderio di indagare sui loro percorsi privati, Soualem ha intervistato e filmato i due anziani per mesi (l’ex coltellinaio Mabrouk è scomparso poco dopo la fine delle riprese), disseppellendo pezzo dopo pezzo una lunga e dolorosa storia di esilio e sradicamento, di silenzi e rimozioni. Il risultato è un documentario molto toccante e di rara sensibilità, che vale tanto come ineludibile incontro di volti e voci di tre generazioni quanto come meritorio tentativo di ricondurre alla grande pagina novecentesca dell’emigrazione di massa parte dell’acceso dibattito sulle questioni identitarie dell’Europa contemporanea.
Tu provieni da una famiglia di attori molto conosciuti. Quanto ha influito, questo, sulle tue scelte di carriera?
Ho sempre cercato di trovare la mia strada da sola e ho sempre voluto affrontare argomenti seri. Ma il cinema, avendo visto i miei genitori recitare in film di finzione sin da quando ero piccola, non mi è sembrato una cosa seria per molto molto tempo! (ride) E’ stato solo più tardi, da studentessa a Buenos Aires, una città ricca di eventi e di persone impegnate politicamente, che ho scoperto nel documentario un modo per riconciliarmi in qualche modo con il cinema e per parlare di quello che volevo, incluse le questioni sociali, politiche e culturali. E infatti, una volta tornata in Francia, ho iniziato a fare da assistente su dei set di documentari, per imparare.
Dunque non hai mai studiato cinema?
No, mai. Ho sempre vissuto in un ambiente legato al cinema, ma tutto quello che so l’ho appreso sul campo osservando.
Quando si è trattato di trovare un soggetto su cui lavorare, però, hai guardato indietro, alla tua storia familiare.
Mi è venuta l’idea di riprendere mia nonna Aïcha, ma ho subito avuto delle esitazioni. Mi dicevo che non ne sarebbe venuto fuori un film, che in fondo tutti vogliono filmare i propri nonni. Non mi fidavo di me stessa. Poi, un giorno, mia nonna ha annunciato che lei e il nonno si stavano separando, dopo sessantadue anni di matrimonio, e ho capito che dovevo assolutamente realizzare il documentario.
Quella è stata la svolta?
Sì, esatto.
Adesso o mai più.
Adesso o mai più. Anche se, a dire il vero, quando ti alzi la mattina, non sai mai se riuscirai a finire il film a cui stai lavorando. (sorride) L’altra svolta però è stata quando, dopo l’annuncio, sono andata a riguardare i filmini di famiglia girati da mio padre negli anni Novanta: mi sono resa conto di quanto fossi fortunata ad aver ricevuto in eredità questi materiali “visivi” e di come, senza volerlo, mio padre avesse dato inizio a qualcosa che ho subito sentito il bisogno di continuare.
Uno dei temi centrali di Their Algeria è il rapporto tra le generazioni. Quello tra te e i tuoi nonni, e in particolare tra te e Aïcha, appare rilassato e istintivo. Tu hai potuto dir loro – e farti dire da loro – cose con una facilità impensabile per tuo padre.
Lui è nato in Francia da algerino, mentre io sono la prima in famiglia a essere nata francese: c’è una distanza tra noi, che mi permette di vedere le cose in maniera più distaccata, dall’esterno. Ma non è nemmeno solo il gap generazionale… Penso che una delle ragioni sia che viviamo in un momento storico in cui ci poniamo tante domande, in cui abbiamo il coraggio di porci tante domande. Domande che mio padre, da giovane, non avrebbe avuto il coraggio di porre a se stesso, e tantomeno ai suoi genitori.
La generazione di tuo padre Zinedine, quella dei figli dei primi immigrati, era soprattutto attenta a ritagliarsi un posto nella realtà francese, ad adattarsi.
Quelli della sua generazione pensavano ad avanzare socialmente e a rendere fieri i propri genitori. Per me è stato diverso: ho avuto la fortuna di nascere in un posto migliore, e quindi posso interrogarmi su tante cose liberamente. La mia generazione, credo, vuole soprattutto far sentire la propria voce.
Tornando ai tuoi nonni, quando hai deciso di mettere entrambi nel documentario?
All’inizio, come dicevo, volevo filmare il modo in cui mia nonna stava reagendo a questa nuova situazione familiare. Ma sarebbe stato impossibile farlo senza coinvolgere mio nonno Mabrouk, e io davvero non sapevo come affrontarlo, come riprenderlo: lui era una persona talmente…particolare! Comunque, la complicità che ho con mia nonna mi ha dato fiducia e ho iniziato a filmare. Siamo stati insieme un mese, durante il quale ho fatto principalmente dello scouting. Mi occupavo delle riprese da sola, registravo l’audio da sola: era a tutti gli effetti la prima volta che giravo. Piano piano però vedevo mio nonno comparire davanti a lei, assistevo ai loro brevi incontri, e così ho iniziato a includerlo nelle riprese.
E’ stata dura lavorare su di lui?
C’è voluto del tempo. Le prime volte non parlava affatto. Non che rifiutasse la mia presenza: la accettava ma, al solito, come se io fossi parte dell’arredamento. Stava lì, immerso nei suoi pensieri, nel suo mondo, e non interagiva con me. Ho impiegato un paio di mesi a trovare un modo per aprire un vero canale di comunicazione con lui, e quando ci sono riuscita è stato come fare una scoperta straordinaria.
Lo hai cinto d’assedio. La differenza tra il carattere chiuso di Mabrouk e quello aperto di Aïcha, del resto, è impressionante. Si potrebbe dire che, da regista, hai usato due metodi di persuasione opposti con i tuoi…interpreti.
Rientra nella costruzione del racconto che si è imposta successivamente. All’inizio riprendevo senza sapere bene cosa stessi facendo. Ma più li filmavo separatamente, più mi appariva chiaro il contrasto tra i loro caratteri. E’ stato molto affascinante veder emergere queste due personalità così diverse, e i loro modi così diversi di gestire la preoccupazione, l’esilio e l’intimità.
E poi hai inserito tuo padre. E alla fine te stessa.
Non pensavo che avrei inserito né me né mio padre, ad essere sincera. Ma poi al montaggio, lavorando con Gladys Joujou, ho capito che erano la mia voce, le mie domande e la mia ricerca a guidare il film, e anche che il coinvolgimento della figura di mio padre era inevitabile, perché lui era parte di questo scambio tra le nostre generazioni. Riprendendolo per la prima volta con sua madre, nella scena in cucina, ho scoperto cose che non mi aveva mai detto o che non avevo mai visto, come il rapporto di complicità che li lega.
Come stabilivi di cosa parlare nei vostri incontri? Avevi un piano di battaglia?
C’era molta spontaneità, ma dopo le prime chiacchierate alcune domande hanno cominciato a tornare con frequenza. Per quanto riguardava mia nonna, avevo bisogno di capire dove avesse trovato la forza per affrontare quel tipo di vita. E dunque mi serviva sapere dove fosse cresciuta, quale fosse il suo rapporto con sua madre e come fossero i suoi ricordi d’infanzia, ai tempi della guerra e dell’occupazione militare. Perché era così forte? Come poteva avere una tale sicurezza di sé? Come era possibile che ridesse ogni volta che parlava di qualcosa di tragico? Per arrivarci, dovevo chiederle di dettagli intimi, di cose di cui non aveva mai discusso apertamente.
E di tuo nonno cosa volevi sapere?
Mi interessava il suo legame con l’Algeria. Perché non ne parlava mai? Perché non ci era mai tornato? In sostanza: cosa era rimasto in lui di quel posto?
Questo è il punto importante, secondo me. Chi emigra tende a costruire un’immagine tutta idealizzata del proprio paese d’origine. La terra abbandonata per cercar fortuna altrove diventa un qualcosa di mitico e i figli, ma soprattutto i nipoti, crescono sentendone parlare ossessivamente – chiunque abbia dei nonni immigrati c’è passato. Mabrouk e Aïcha, invece, hanno nascosto, hanno seppellito la loro Algeria.
E’ interessante quello che dici. In effetti c’è una differenza molto grande tra la mia famiglia paterna algerina e la mia famiglia materna palestinese. I miei parenti palestinesi parlano costantemente della loro terra, del loro passato, di tutto quello che hanno perso in circostanze drammatiche – e anche per questo il silenzio dei miei nonni algerini in confronto mi era sempre sembrato incomprensibile. Dialogando con loro ho capito però cosa stavano nascondendo: un dolore profondissimo dovuto allo sradicamento. Per loro lasciare l’Algeria è stato un trauma enorme: un trauma che hanno dovuto seppellire per poter sopravvivere e andare avanti.
E’ la grande contraddizione dell’emigrazione algerina: masse di persone che si sono trasferite in un paese che le opprimeva, e del quale, di fatto, sono rimaste prigioniere persino negli anni successivi all’indipendenza. Il rapporto tra Francia e Algeria è ancora adesso unico – un’unicità orrenda, onestamente.
Sì, è una questione molto molto complicata. E penso che questa rimozione, questo occultamento del dolore derivi proprio dall’incapacità di spiegare a se stessi come sia stato possibile per loro finire in un paese che li aveva colonizzati e contro il quale avevano combattuto. Molti algerini che si sono trasferiti in Francia in quegli anni avevano preso parte alla resistenza, avevano finanziato il Fronte di Liberazione Nazionale dall’Europa e poi non erano potuti tornare. Ma la loro, alla fine, è stata una traiettoria così paradossale da ridursi a un semplice ‘perché siamo qui?’
Una delle domande chiave del documentario.
A un certo punto mia nonna ha detto una cosa che mi ha colpito molto: ‘non avevamo comprato casa qui perché eravamo convinti che saremmo tornati in Algeria, ma quando abbiamo visto che i nostri figli si trovavano bene a scuola e che nessuno ci diceva di andarcene siamo rimasti.’ Nessuno gli aveva detto di andarsene! E’ come se davvero la tua vita fosse influenzata da qualcosa di più grande: non hai scelta, obbedisci alle leggi della Storia e basta.
Sono rimasti ma non sono diventati francesi. La sequenza in cui Mabrouk ti mostra il suo permesso di soggiorno è molto bella: si percepisce il suo orgoglio. Un piccolo gesto di ribellione, quasi.
Sì, è pazzesco… Anche perché io non lo sapevo, non ne avevo idea.
Non sapevi che non erano cittadini francesi?
No, l’ho scoperto per caso. Così come non sapevo che mio padre fosse diventato francese a ventotto anni. E così come mia nonna non sapeva di aver invece avuto documenti francesi quando viveva in Algeria – era considerata una musulmana francese dall’amministrazione coloniale. Questo è quello che ti fa il colonialismo: ti priva della tua identità.
Uno sradicamento identitario.
E se i nostri nonni non sanno perché sono qui, come possiamo noi sapere perché siamo qui? Penso che il percorso che ci conduce a sentirci a nostro agio tra questi vari paesi e tra queste varie realtà, e non sempre illegittimi ed estranei, sia molto importante. Ci riporta alla questione del nostro posto nel mondo.
Per i tuoi nonni è stato un conflitto tra Algeria e Francia, ma per te è ancora più complicato. Algeria, Francia e Palestina: una triangolazione.
Sì, e ci sto ancora lavorando… (ride)