di Guido Reverdito.
Falsa partenza. Ci avevamo creduto. Ci eravamo illusi che la riapertura delle sale in autunno potesse essere l’inizio di una lenta ma necessaria resurrezione dalle catacombe in cui l’intera filiera del cinema era precipitata nei lunghi mesi di chiusura forzata. L’estate poi, pur con le croniche idiosincrasie che tanto il pubblico quanto il mercato italiani hanno sempre mostrato nei confronti della stagione balneare (anche in epoche di pre-pandemia), aveva corroborato questa sensazione di moderato entusiasmo all’idea che a inizio autunno le sale avrebbero riaperto i battenti.
A fine agosto Venezia aveva fatto il resto: sfidando virus e scetticismi vari ma con un rispetto quasi sacrale di tutte le norme imposte per garantire una fruizione dell’evento in completa sicurezza, il festival aveva mostrato al mondo come emergenza sanitaria e presenza di pubblico in sala potessero convivere senza eccessivi traumi né conseguenze esiziali a livello di diffusione del contagio.
A confermare il circuito virtuoso favorito dal successo del festival in laguna ci aveva poi pensato la Festa del Cinema di Roma. Ovvero l’altro grosso appuntamento che, causa pandemia, avrebbe potuto rischiare di essere convertito in evento integralmente virtuale e che si è invece rivelato un’ulteriore riprova di come sia possibile organizzare una manifestazione di dimensioni importanti senza snaturarne in toto la struttura.
Questo grazie alla lungimiranza di un’organizzazione (con Laura Delli Colli a presiedere la Fondazione Cinema per Roma e Antonio Monda nel ruolo di direttore artistico) capace di far convivere il rigore assoluto nel rispetto delle normative sanitarie e la volontà di aprire la città al cinema di qualità regalando a molti suoi spazi il compito di ospitare proiezioni a dir poco inconsuete. Di qui la scommessa – stravinta – di proporre film non solo nell’Auditorium disegnato da Renzo Piano, ma anche in aree metropolitane apparentemente poco adatte alla sua fruizione quali il carcere di Rebibbia, le stanze del Policlinico Gemelli, le case dove vengono ospitate donne vittime di maltrattamenti domestici e addirittura la Nuvola di Fuksas all’EUR.
Un successo quello della Festa del Cinema di Roma confermato dal tutto esaurito in quasi ogni proiezione (basti pensare alla retrospettiva sul cinema indiano presso la Casa de Cinema sempre sold out), ma anche dalla partecipazione di massa a eventi e incontri di varia natura sia in presenza che in streaming. Il tutto senza che mai si protestasse contro l’imposizione di mascherine o per il numero ridotto di posti a sedere nelle sedi di proiezione per il rispetto del distanziamento sociale.
I due eventi succedutisi a distanza di meno di due mesi avevano cioè emesso un verdetto piuttosto chiaro: orfano dell’esperienza in sala e forse in overdose da visioni domestiche sulle varie piattaforme disponibili, il pubblico più assiduo che non ha mai considerato il piccolo schermo un surrogato plausibile di quello grande ha dimostrato di avere fame di cinema. Di volere cioè con forza che i timidi segnali di risveglio intuiti a partire dai primi di settembre fossero l’anticamera per un ritorno a una qualche normalità del tempo andato. Con sale risorte dalle nebbie del lockdown e finalmente in cartellone almeno qualcuno dei titoloni made in USA da mesi congelati dai distributori preoccupati di bruciarli in questo periodo di forti restrizioni e decisi a giocarseli quando ci si potrà di nuovo accalcare nelle sale e la pandemia sarà solo un ricordo di incubi lontani.
Ci eravamo dunque sbagliati? Forse no. E con tutto che queste avvisaglie di ripartenza potevano far presagire solo deboli indizi di risveglio e non certo un’esplosione di vitalità capace di ridare linfa e rigoglio a un settore già in innegabile crisi prima ancora che i pipistrelli di un remoto mercato avicolo nella lontana Cina decidessero di rovinare la festa all’intero pianeta.
A farci capire che il parziale risveglio era in realtà soltanto un falso movimento di wendersiana memoria è stato il DCPM del 24 ottobre scorso: cinema e teatri chiusi fino almeno al 4 dicembre. Con l’ipotesi – quanto mai realistica, almeno a giudicare dagli sviluppi sanitari nel corso del mese di novembre – di prolungare il serrate anche durante le vacanze natalizie. Ovvero quell’area del calendario che ormai da decenni rappresenta il momento in cui il mercato rastrella un robusto 25% degli incassi di un’intera stagione.
Un colpo non da poco. E non solo per gli esercenti, ma anche per tutta la filiera del mondo dell’audiovisivo in generale. Un comparto che dà lavoro a quasi 130.000 operatori e che difficilmente riuscirà a mantenersi a galla contando solo sui sussidi dei vari decreti ristori, rischiando di sottovalutare l’immediato beneficio degli interventi di sostegno statale senza pensare agli inevitabili danni che la chiusura prolungata delle sale potrebbe comportare qualora dovesse durare ancora per molte settimane se non mesi. Il che potrebbe avere un’ulteriore conseguenza indiretta. E cioè una nuova emorragia di spettatori che in autunno si erano illusi di poter tornare in sala ma che adesso finiranno col farsi sedurre e conquistare dalle sirene del consumo domestico da teledipendenza forzata cui avevano magari finora resistito.