di Renato Venturelli
La versione più nota di La chiave di vetro è sicuramente quella del 1942, ispirata al romanzo di Dashiell Hammett e diretta da Stuart Heisler: un esempio di quell’ondata noir dei primi anni ’40 che comprendeva anche film come Lo sconosciuto del terzo piano (1940), Il mistero del falco (1941), Situazione pericolosa (1941) o Il fuorilegge (1942).
E’ noto però che la Paramount aveva già portato sullo schermo lo stesso romanzo di Hammett nel 1935, nel film omonimo di Frank Tuttle che rientra tra le principali argomentazioni di chi vede i prodromi del futuro ciclo noir già in molte produzioni degli anni ’30. Secondo questa teoria, l’esplosione del noir nel dopoguerra non sarebbe tanto la conseguenza del clima post-bellico, quanto la ripresa di un fenomeno che stava già manifestandosi in precedenza e che proprio l’ingresso in guerra degli Stati Uniti aveva interrotto, richiedendo film meno cupi e pessimisti per sostenere il morale della nazione. “Se non fosse stato per la guerra – scrive Paul Schrader – il film noir avrebbe avuto pieno sviluppo già all’inizio degli anni ‘40”.
I percorsi noir degli anni ’30 erano stati però piuttosto tortuosi. Nel 1934, ad esempio, era uscito il romanzo di James Cain Il postino suona sempre due volte, e la MGM ne aveva acquistato subito i diritti, ma il tentativo di trarne un film fu bloccato dalla censura. Il codice Hays entrato da poco in funzione aveva ostacolato anche la produzione di gangster-film, cercando di indirizzarla verso terreni più istituzionali: nel 1935 esce La pattuglia dei senza paura che in modo programmatico parte dal personaggio criminale di James Cagney per farne poi un difensore della legge. E nonostante l’affermarsi della generazione letteraria hard-boiled, buona parte dei film polizieschi degli anni ’30 combinano il mystery con la commedia, in un’alternanza di momenti angosciosi e leggeri rispecchiata anche dai diversi registri visivi: i giochi “espressionisti” di ombre riguardano solo singole scene di tensione e non permeano ancora con le loro atmosfere soffocanti l’intero clima del film, come invece avverrà nel noir degli anni ’40. E lo stesso Falcone Maltese di Hammett viene trasposto al cinema in Satan Met a Lady (1936) in chiave di commedia briosa, dopo una prima versione drammatica del 1930.
I problemi toccarono anche La chiave di vetro, perché la Paramount aveva acquistato i diritti del romanzo di Hammett al momento della sua uscita (su “Black Mask” nel 1930, in volume nel 1931), ma era stata bloccata per via dell’universo di corruzione istituzionale che dipingeva. Quando alla fine viene realizzato nel 1935, il film di Frank Tuttle riduce perciò la carica corrosiva del libro. I personaggi e la vicenda risultano molto semplificati, la rappresentazione della corruzione attenuata. George Raft nella parte del protagonista Ned Beaumont viene presentato come un giocatore vincente, a differenza di quanto avviene nel romanzo ma in obbedienza al personaggio di Raft sullo schermo. L’azione principale è contrappuntata dai fiacchi intermezzi comici di un aiutante di Raft ossessionato dai giochi di carte. E la soluzione del caso di omicidio avverrà in una di quelle sedute collettive che erano un passaggio quasi obbligato dei mysteries dell’epoca.
Per tutta la prima parte il film riesce però a trasmettere comunque il senso di una società controllata da loschi avventurieri, dal cinismo elettorale, da un uso distorto dei giornali: democrazia e libertà di stampa sono strumenti nelle mani di chi controlla il potere ed è colluso con la malavita. La vicenda – ricordiamo – ruota attorno a Ned Beaumont (Raft), amico e consigliere di Paul Madvig (Edward Arnold), boss di una grande città legato a quell’universo criminale da cui adesso vorrebbe prendere le distanze, in attesa delle elezioni in cui il suo candidato è un ricco senatore. Madvig spera di inserirsi in quell’ambiente rispettabile lasciandosi alle spalle i bassifondi da cui proviene, ma è trattato con disprezzo: e la situazione è destinata a precipitare quando il figlio del senatore viene trovato ucciso e i sospetti cadono proprio su Madvig.
Ned Beaumont osserva con distaccata lucidità gli intrighi del suo capo, cerca di consigliarlo, lo mette in guardia sul senatore: quando lo aiuta a vestirsi elegantemente per una cena, gli sussurra anche un “ti lasceranno parlare col maggiordomo…”. E’ il personaggio cui si ispireranno ampiamente i Coen per il Tom Reagan di Gabriel Byrne in Crocevia della morte. E se la lucida rappresentazione della società americana di Hammett riesce a filtrare solo in modo molto parziale, il film mostra comunque una stampa asservita a logiche politiche, e fa affiorare a tratti l’ambiguità del rapporto tra Beaumont e Madvig, una sorta di latente storia d’amore in cui il consigliere osserva il “tradimento” da parte del suo boss.
Condotto a ritmi sostenuti, La chiave di vetro di Tuttle è però ancora lontano dalle atmosfere che caratterizzeranno il noir degli anni ’40. Nonostante il bel personaggio di Beaumont e lo sguardo disincantato sulla società americana, siamo nell’ambito di un racconto energico, spesso visivamente ruvido anche se vi compaiono come in tanti altri film anni ’30 singoli elementi che caratterizzeranno i cliché del noir successivo: le ombre proiettate lungo le pareti, Raft inquadrato contro le veneziane di una finestra, le sequenze in cui viene picchiato dallo sgherro di un boss criminale (Guinn “Big Boy” Williams, una specie di Mike Mazurki d’epoca). E soprattutto la scena di un pestaggio dominata da una lampada al centro della scena, che durante l’azione viene colpita e continua a oscillare da un lato all’altro dell’inquadratura, in una continua alternanza di luce e di buio: una di quelle tipiche soluzioni che torneranno in tanti noir del ciclo classico, ma che per ora è solo un modo per risolvere una scena di violenza.