di Aldo Viganò.
Pur nella disastrata Gran Bretagna odierna, dove anche la classe operaia non vota più il “dandy” labourista Jeremy Corbyn, preferendo dare nell’urna elettorale la maggioranza al “clown” conservatore Boris Johnson, l’ormai ottantaquatrenne Ken Loach non modifica la propria dichiarata vocazione anticapitalista e non cambia il suo modo essenzialmente umanista di fare del cinema.
Questa volta, il suo sguardo sempre ad altezza d’uomo si posa su una famiglia di Newcastle (padre, madre e due figli) che nutre la speranza di migliorare la propria condizione socio-economica, ma che, a causa delle sempre più spietate leggi della nuova organizzazione del lavoro, si trova ben presto privata d’identità dallo sfruttamento e ridotta al limite della disperazione.
Forte della coerenza del proprio discorso etico e sociale, Ken Loach racconta con inesorabile evidenza questa odissea esistenziale, evita la trappola del partito preso di carattere ideologico e con stile limpido analizza con apparente semplicità le cause e le conseguenze dei comportamenti degli esseri umani, portando in primo piano, dentro a una realtà oggettivamente spietata, la loro pur contraddittoria solidarietà famigliare e la loro tenacia esistenziale, senza negarne le pur vitali passioni e le loro debolezze ed errori, comunque sempre compiuti nella speranza nell’avvento di un mondo migliore.
Ed è proprio questa viva attenzione per gli individui che (ancor più del discorso ideologico pur sempre esibito), caratterizza e qualifica il cinema di Ken Loach, garantendogli una risonanza fortemente contemporanea.
Colpito dalla crisi economica con la perdita del lavoro, l’ancor giovane Ricky Turner decide di mettersi in proprio e accetta un rapporto in “franchising” con una ditta di trasporti collegata a grandi firme internazionali, il cui responsabile gli espone subito, pur in modo mellifuo, il motto che ne informa il raggio d’azione: «Tu non lavori per noi, tu lavori con noi». Sembra la conquista dell’autonomia, uno spiraglio sulla libertà borghese dell’individualismo; qualcosa che fa sognare un futuro migliore, per conseguire la quale vale la pena di sacrificare la macchina della moglie (badante a domicilio per vecchi e disabili) al fine di coprire la prima rata di un furgone per il trasporto delle merci.
Ma non passa molto tempo che Ricky e i suoi famigliari si rendono conto della trappola in cui sono caduti. I movimenti del corriere “in proprio” sono sempre controllati da un computer. Le ore di lavoro non bastano mai. Al minimo sgarro scattano le multe. Sia lui che la moglie (costretta ora a spostarsi con i mezzi pubblici) scoprono di non avere più tempo per la famiglia; soprattutto quando il figlio adolescente inizia a marinare la scuola per inseguire i propri ancora incerti sogni artistici.
I nervi di Ricky finiscono così col cedere. E le cose precipitano quando un gruppetto di teppisti lo assale, lo picchia a sangue, lo deruba del carico e, per estremo oltraggio, lo annaffia con la pipì che, per risparmiare tempo, egli è costretto a fare in una bottiglietta di plastica.
Questa è la vita dei nuovi sfruttati, dice l’analisi spietata di Loach. Così finiscono i sogni di chi s’illude di passare dallo stato di proletario a quello di piccolo borghese, ribadisce il regista. Al fallimento non c’è alcun’altra possibile alternativa, ribadisce l’anziano trotskista, che non sia quello del totale cambiamento della società, in un finale disperato pur nel conforto dell’intera famiglia, unita in questa storia di sconfitta senza altra possibilità di riscatto.
Giunto così a un “The End” sospeso sull’orlo della tragedia, Ken Loach firma con “Sorry, We Missed You” (il titolo ripropone il messaggio che i corrieri lasciano in Gran Bretagna ai destinatari assenti dei pacchi in consegna) il suo film più pessimista. Ma ancora una volta lo fa con lo stile che gli è più congeniale, contrapponendo alla spietatezza del sistema sociale, la rappresentazione delle conseguenze che esso ha sul comportamento dei singoli componenti della famiglia.
Come al solito, sono le femmine quelle che manifestano maggiore senso della realtà. Mentre, infatti, Ricky infine cede alla disperazione e il figlio più grande si rifugia nella fantasia artistica, organizzando con i compagni di scuola l’impresa di riempire gli spazi murali con i suoi graffiti, è l’infermiera Abbie che, pur sottoposta a ritmi di lavoro non dissimili da quelli del marito, dimostra comunque di sapersi adattare agli eventi e, con l’appoggio della figlia minore, nonché di quello (pur inespresso) dei suoi assistiti, cerca sempre di smussare le rabbie e i conflitti; aprendo così uno spiraglio su un pur ancora invisibile, ma forse possibile, mondo migliore.
Sorry, We Missed You
(Gran Bretagna – Belgio – Francia, 2019) regia: Ken Loach – sceneggiatura: Paul Laverty – fotografia: Robbie Ryan – musica: George Fenton – scenografia: Fergus Clemm – costumi: Jo Slater – montaggio: Jonathan Morris. interpreti e personaggi: Kris Hitchen (Ricky Turner), Debbie Honeywood (Abbie Turner, sua moglie), Rhys Stone (Sebastian “Seb” Turner, il figlio), Katie Proctor (Liza Jane Turner, la figlia), Ross Brewster (Maloney, il caporeparto), Charlie Richmond (Henry Morgan) – distribuzione: Lucky Red – durata: un’ora e 41 minuti