di Massimo Lechi.
Ampio spazio per il cinema di animazione al settimo Ajyal Film Festival (18 – 23 novembre 2019), come ha testimoniato anche la presenza di Bombay Rose, l’opera prima dell’indiana Gitanjali Rao, una delle più stimate registe di cortometraggi animati al mondo. Suoi i poetici Printed Rainbow (2006) e TrueLoveStory (2014), lavori di inconfondibili bellezza ed eleganza, realizzati in piena autonomia, che le sono valsi il plauso della critica internazionale e messe di premi in Europa e in patria.
Già evento speciale d’apertura della Settimana della Critica a Venezia 2019, presentato a Doha nel programma Made in India, Bombay Rose ha confermato tutto il talento della Rao, autrice di un abbagliante affresco di Bombay (oggi Mumbai) da cui emerge l’infelice storia d’amore tra la bella indù Kamala e il tormentato musulmano Salim. Due giovani in fuga – la prima da un matrimonio combinato, il secondo dagli orrori della guerra civile -, confusi nel caos ovattato di una metropoli i cui contorni sfumano costantemente nel sogno e in un passato di antiche fiabe e vecchi film in bianco e nero.
Data la complessità dello stile di Bombay Rose, immagino che il tempo di lavorazione sia stato molto lungo.
Il film è dipinto a mano, inquadratura per inquadratura – anche se ovviamente abbiamo fatto ricorso ai computer. La lavorazione, dallo sviluppo del soggetto alla fine della postproduzione, è durata sei anni. Ma in realtà la cosa che ha richiesto più tempo è stata la ricerca dei finanziamenti. Nel 2013 scrissi una prima stesura della sceneggiatura e trovai subito dei produttori francesi e il sostegno del Doha Film Institute. Ma poi fino al 2017 non fui in grado di attirare finanziatori indiani.
Quattro anni passati a cercare sostegno economico nel tuo paese, dunque.
Sì. Nel 2016, dopo aver partecipato a diversi laboratori di scrittura, persi la pazienza e iniziai a preparare lo storyboard. Fu allora che i miei co-produttori indiani mostrarono finalmente interesse e salirono a bordo. Ma ci volle ancora un anno per l’accordo tra loro e i francesi. Dopodiché contattai uno dei migliori studi di animazione 2D in India e iniziammo la lavorazione: diciotto mesi in tutto – che non è molto per un film del genere.
E tutto realizzato in India.
Completamente. Lì ho avuto a disposizione una sessantina di disegnatori, oltre ai giovani studenti di istituti d’arte che hanno aiutato a dipingere i vari frame. Ogni cosa in Bombay Rose è stata disegnata e poi, in un secondo momento, colorata a mano da due team distinti.
Un modo di lavorare piuttosto diverso rispetto ai tuoi cortometraggi, in cui tu ti sei sempre occupata dell’animazione da sola. Il tuo ruolo qui, concretamente, quale è stato?
Il mio ruolo è stato quello di prendere ogni inquadratura ed elaborare un’estetica che assomigliasse a quello che avrebbe dovuto essere il film. Un’estetica su cui poi ha lavorato il mio esercito di artisti.
Sei stata come un generale.
Sì sì, assolutamente, come un generale con il suo esercito! Dopo circa sei mesi sono riusciti a fare proprio il mio stile, tanto che verso la fine hanno lavorato molto meglio di quanto io avrei mai potuto fare.
Diresti che la differenza fondamentale tra Bombay Rose e i tuoi corti è stata la grandezza della produzione o c’è altro?
Da un punto di vista creativo, non ci sono grosse differenze. Ma se parliamo di scrittura e di dialoghi, per me qui è stata la prima volta. Non avevo mai scritto una sceneggiatura finora: nei miei corti iniziavo direttamente dagli storyboard e poi procedevo con l’animazione. E’ stato un lavoro certamente più strutturato.
Com’è la situazione attuale del cinema di animazione in India?
Praticamente nessuno finora aveva fatto qualcosa di simile a Bombay Rose. In India abbiamo sempre esternalizzato l’animazione oppure importato film stranieri da doppiare nelle nostre varie lingue. Non so cosa succederà in futuro, ma spero che lavori come il mio possano convincere i produttori che c’è un indian way di fare cinema di animazione.
Il tuo film ricostruisce il complesso mosaico culturale dell’India. E lo fa attraverso un affresco mai banale di Bombay.
Bombay è lo specchio della società indiana per tutto il mondo. Innanzitutto perché è la nostra capitale economica e poi perché è una città che da sempre accoglie persone da ogni angolo del paese. E’ una città di immigrazione, che è stata costruita negli anni da gente di fuori, proveniente dall’estero – come gli inglesi – e dal resto dell’India.
Ed è anche la tua città.
I miei genitori ci si sono stabiliti molti anni fa, e io di conseguenza sono nata e cresciuta lì. Posso dunque definirmi una vera nativa di Bombay, anche se in realtà resto un’immigrata. Tutti a Bombay, in fondo, sono considerati degli outsider, perché tutti vengono in qualche modo da altrove. Quindi sì, è un mosaico di diverse culture, religioni, lingue e tradizioni culinarie. Se attraversi il traffico e ti guardi attorno, vedi tutto quello che ho messo in Bombay Rose. Vedi ragazzi e ragazze che vendono fiori, vedi nascere l’amore tra loro e finisci col chiederti da quale parte dell’India essi vengano.
Questo melting pot, però, hai scelto di rappresentarlo in maniera non esageratamente violenta. Anzi, piuttosto morbida. La tua Bombay non è la Calcutta infernale che gli spettatori occidentali hanno visto spesso sul grande schermo.
Non direi che ho ammorbidito alcuni aspetti della città, ma sono certamente rimasta lontana da quello che oggi viene chiamato “poverty porn”, e che io ho sempre considerato sgradevole. Il cinema a cui mi sono ispirata è quello di Satyajit Ray e di Mrinal Sen, che raccontava sì di persone molto povere, ma anche di emozioni e di pensieri interiori molto ricchi e complessi. Rappresentare in maniera esotica i poveri non mi interessa. Ciò che cerco di fare è capire il tipo di bellezza che, nonostante la povertà, è possibile trovare nella mente delle persone. La ricchezza interiore e quella esteriore sono due cose molto diverse e l’animazione mi permette di mostrarle facilmente, così come mi permette di raccontare la realtà senza dovermi concentrare su elementi troppo brutti e spiacevoli. Però questo non significa edulcorare.
Non c’è, a mio avviso, uno sguardo esotizzante in Bombay Rose. Però c’è una serie di riferimenti al folklore indiano e poi al cinema di Bollywood – addirittura ai film che si facevano quando ancora non era in uso il termine Bollywood. Tutti elementi, questi, che possono risultare comunque molto esotici per il pubblico occidentale.
Sì, sicuramente. Da artista mi interrogo spesso su cosa sia esotico e cosa no, su cosa sia kitsch e cosa autenticamente bello. Nel film ho cercato di mantenere un equilibrio. L’arte indiana, per me, è straordinariamente bella, ma il modo in cui la si rappresenta può renderla, in un senso molto limitato, esotica. Se tu cerchi di capire da dove viene, cosa significa e come influenza le persone, allora puoi affrontarne la bellezza in una dimensione più ampia.
I tuoi personaggi fanno costantemente avanti e indietro nel tempo. In questi passaggi io ho percepito un forte senso di nostalgia. Ma una nostalgia molto particolare, perché tu da una parte non sembri idealizzare il passato e dall’altra non guardi al presente in maniera completamente negativa. E’ come se fosse, non so come dire, una specie di nostalgia “grafica”.
Sì! (ride) Sì, è corretto. Quando attraverso un momento difficile, a livello personale, mi piace pensare a qualcosa di gradevole che mi è capitato nella vita. Lo facciamo tutti, se siamo su un volo e non abbiamo niente da leggere o se siamo alle prese con una rottura sentimentale: pensiamo ai momenti belli. I miei personaggi fanno lo stesso. Quando per esempio nella vita – che può essere molto banale o molto crudele – si trovano a compiere gesti meccanici, iniziano a pensare a un’epoca o a un luogo che avrebbero potuto essere più pacifici e piacevoli. Ma non è un qualcosa di romantico, perché loro non fuggono completamente in un’altra dimensione: a un certo punto ritornano nella loro realtà, che non è mai troppo negativa. La maggior parte delle persone, penso, vivono in questa sorta di interregno.
E’ un lavoro sulle sfumature che ti colloca in uno spazio tutto particolare nel panorama cinematografico indiano.
Be’, io affronto questo tipo di storie… Non racconto di qualcuno che diventa un eroe di Bollywood: quelle sono situazioni molto tipiche, in cui tutto è bianco o nero. L’avere a che fare con i grigi, invece, per me è l’aspetto più gratificante del fare film.
Però la storia d’amore tormentata di Kamala e Salim è un grande archetipo.
Sì, e doveva esserlo. Altrimenti avrei finito col dire troppe cose senza riuscire a dare coerenza al film. E allo stesso modo volevo che la storia d’amore fosse esemplare così da far emergere in maniera più forte la ricchezza del mio approccio narrativo. Se la storia fosse stata più imprevedibile, credo che avrei creato un sacco di confusione.
La vicenda principale è ambientata nel presente, con i due protagonisti che viaggiano indietro nelle favole antiche. La storia di Miss D’Souza, con i suoi ricordi di un amore passato, vive invece delle suggestioni del vecchio cinema commerciale in bianco e nero. Sono immaginari molto diversi: indiano il primo, occidentalizzato il secondo.
Anche questo è dovuto a Bombay. Miss D’Souza è anglo-indiana, figlia di una storia di immigrazione che risale a cinquecento anni fa quando gli inglesi sbarcarono in India. Molti poi sposarono degli indiani e per questo ancora oggi i loro discendenti, che continuano a vivere isolati e a parlare esclusivamente in inglese, non sono completamente accettati. E poi erano proprio gli anglo-indiani a ballare nei vecchi film, perché solo la religione cattolica permetteva la danza in pubblico. L’immaginario rievocato dal personaggio di Miss D’Souza perciò esiste davvero e devo dire che mi ha sempre affascinato.
Su quella parte del racconto aleggia il fantasma di Guru Dutt, la vostra star cinematografica degli anni Cinquanta e Sessanta.
Ho voluto rendere omaggio a Guru Dutt perché, secondo me, quello che ha portato sul grande schermo ha ancora oggi un valore rilevante. Era una persona in grado di guardare nel ventre di un posto come Bombay e raccontare storie d’amore molto belle. Quindi sì, è un omaggio a Guru Dutt, ma anche agli anni Cinquanta e Sessanta… I miei genitori vedevano i suoi film e per loro l’amore era quello.