di Renato Venturelli.
Impostosi con film come Apri gli occhi, Vanilla Sky o The Others, che gli avevano fruttato l’etichetta di regista visionario presso i fan del fantastico, Alejandro Aménabar ha poi precisato meglio in Il mare dentro o Agorà una sua visione laica del mondo, vedendo però nel contempo calare parecchio la sua fama presso i cinefili.
Adesso affronta in Mientras dure la guerra una delle pagine-chiave della storia spagnola, quella riguardante la nascita della dittatura di Francisco Franco, argomento per lui doppiamente significativo: nato in Cile poco prima del golpe di Pinochet, Aménabar è infatti cresciuto in Spagna, dove i suoi si erano quasi immediatamente trasferiti, e l’ascesa del Caudillo viene quindi a essere un momento simbolico cruciale per entrambe le sue identità nazionali. Lo stesso titolo si riferisce alla precisazione con cui i colleghi di Franco volevano cautelarsi mentre gli affidavano pieni poteri, limitandoli alla sola durata della guerra civile.
L’aspetto principale del film sta però nel fatto che gli avvenimenti vengono raccontati dal punto di vista di Miguel de Unamuno, lo scrittore e filosofo che nella Spagna degli anni trenta era una delle massime autorità morali e culturali, il repubblicano e socialista che si era fieramente opposto alla monarchia e alla dittatura di Primo de Rivera fino a essere destituito dalla carica di rettore dell’università di Salamanca ed esiliato. Quando però comincia l’avanzata dei militari ribelli contro la Repubblica, Unamuno si schiera dalla parte dell’Alzamiento nazionalista, vedendo nei falangisti i difensori di un ordine nazionale, del cattolicesimo e della civiltà occidentale a suo parere minacciati dal caos repubblicano.
Diventato un fiore all’occhiello dei falangisti, vedrà a poco a poco i suoi amici intellettuali finire vittime del nascente regime franchista, sequestrati e uccisi senza che i suoi appelli abbiano alcun esito. E quando nel 1936 viene chiamato a fare il suo discorso all’inaugurazione dell’anno accademico, reagirà alla celebrazione del Giorno della Razza con una celebre invettiva (“voi vincerete perché avete la forza bruta, ma non convincerete. Perché per convincere occorre persuadere. E per persuadere ci vuole quello che a voi manca: ragione e diritto”).
La scelta di Amenabar sta quindi nel non raccontare la guerra civile attraverso la contrapposizione di repubblicani e falangisti, ma osservarla da un punto di vista problematico, quello di un intellettuale che era stato un simbolo del dissenso ma aveva poi dato il suo consenso al nuovo regime, sprofondando in dubbi e contraddizioni che avrebbero accompagnato i suoi ultimi giorni di vita (morì il 31 dicembre 1936, a 72 anni, due mesi dopo il discorso all’università). Un punto di vista che è ovviamente suscettibile di interpretazioni rapportate alla situazione politica attuale. Alla struttura problematica del film non corrisponde però una regia altrettanto complessa: e il film scivola via con i modi piani di uno sceneggiato televisivo, senza riuscire a mantenere un approccio didattico “rosselliniano”, ma in un susseguirsi di scene convenzionali, spesso banalmente patetiche, prive anche di quei tocchi caustici che caratterizzano l’approccio “politico” del regista in film come Mare dentro o Agorà.