di Aldo Viganò.
Pur con qualche libertà ed omissione, il “J’accuse” di Roman Polanski è un film rispettoso degli avvenimenti storici del “affaire Dreyfus”, che ha avuto il proprio epicentro nel 1894-95 e la propria via di soluzione nella lettera-editoriale pubblicata il 13 gennaio 1898 da Emile Zola su “L’Aurore”. Ma, opportunamente, il regista e co-sceneggiatore sceglie di raccontare quei fatti dal punto di vista del tenente colonnello Marie-George Picquart, il quale dopo di essere stato uno dei maggiori accusatori del più celebre capitano ebreo degli anni a cavallo tra il XIX il XX secolo (e per questo promosso a un ruolo dirigenziale dei servizi segreti francesi), dalla sua nuova posizione scopre, dapprima con sgomento e poi con sempre maggiore convinzione (“nel nome e nella reputazione dell’esercito”), che la condanna per tradimento di Dreyfus è stata viziata da false prove e da un’evidente impostazione antisemita.
Secondo questa impostazione narrativa, Polanski consegna al grande schermo un film dall’andamento poliziesco, che sapientemente si struttura sullo svolgimento dell’inchiesta giudiziaria, infine conclusa con una sentenza assolutoria, anche se viziata dal compromesso. Nasce così un bel film. Serio nella ricostruzione storica e avvincente nella sua articolazione narrativa. Ma anche una pellicola che poco o nulla concede allo spettacolo, a partire dalla scelta fattuale dei protagonisti i quali sono presentati come persone nel complesso niente affatto simpatiche. Sia “la vittima”, sia il suo “difensore”. E questa loro mancanza di “eroismo” viene resa esplicita soprattutto nell’unica sequenza in cui i due appaiono insieme: il primo (Dreyfus) nella veste di chi chiede giustamente il risarcimento della completa riabilitazione; il secondo (Picquart) nei panni del ministro cui si rivolge (nel ruolo da lui ottenuto nel nuovo clima politico-culturale che si è venuto a creare in Francia), il quale però gliela nega per mancanza di opportunità e, forse, anche per la permanenza del suo mai abiurato odio pr gli ebrei.
Da tutto questo accavallarsi di verità storiche e di un crescendo dalla “suspense” ben congegnata, Polanski sortisce un film fondamentalmente problematico: capace di essere insieme gelido ed emotivamente coinvolgente. Un’opera con evidenti meriti autoriali, nonostante la sua mancanza di di una complicità “sentimentale” con i propri personaggi, i quali trovano però il pieno riscatto artistico nella classicità figurativa dell’inquietante impaginazione cinematografica.
“J’accuse” è infatti un film freddo, ma anche complesso. Insieme storico e molto personale. Sempre in grado di evitare un eccessivo compiacimento autobiografico (forse leggibile tra le righe), ma anche di mantenersi lontano dai “clichés” della rivalutazione quasi un secolo dopo.
Soprattutto, “J’accuse” è un’opera ben scritta. Sia sulla carta (la sceneggiatura tratta da Robert Harris da un suo libro), sia sullo schermo (la messa in scena di Polanski). Un film ben interpretato da attori mai sopra le righe e guidato dall’ormai ultra ottuagenario regista polacco sui sentieri di una classicità mai leziosa, che sembra ignorare ogni tentazione di inserirsi nella scia delle “serie” televisive oggi di moda.
Abbandonati da tempo i vampiri e le periodiche incursioni nel demoniaco, Polanski ha scelto ormai di guardare con stupore e con curiosità gli esseri umani e i loro comportamenti, senza differenze tra il passato e il presente. Lasciandoli vivere liberamente, senza sovrapporre loro inutili argomentazioni moralistiche o ripetitive interpretazioni ideologiche. Nel bene e nel male per Polanski gli esseri umani sono così. Tutti. All’artista resta solo il dovere di raccontarli per quello che sono. E di questa sua nuova (e in fin dei conti giovanilistica) visione dell’Umanità, della Storia e del Cinema non possiamo che essergli grati.
L’UFFICIALE E LA SPIA
(J’accuse, FRANCIA – ITALIA 2019)
regia: Roman Polanski – soggetto: dal romanzo di Robert Harris – sceneggiatura: Robert Harris e Roman Polanski – fotografia: Pawel Edelman – musica: Alexandre Desplat – scenografia: Jean Rabasse – costumi: Pascaline Chayanne – montaggio: Hervé de Luze. interpreti e personaggi: Jean Dujardin (ten.col. Marie-Georges Picquart), Louis Garrel (cap. Alfred Dreyfus), Emmanuelle Seigner (Pauline Monnier), Grégory Gadebois (magg. Hubert-Joseph Henry), Mathieu Amalric (Alphonse Bertillon), Melvil Poupard (Fernand Labori), Éric Ruf (col. Jean Sandherr), Laurent Stocker (gen. Georges-Gabriel de Pellieux), François Damiens (Émile Zola), Michel Vuillermoz (ten.col. Armand du Paty de Clam), Denis Podalydès (Edgar Demange), Wladimir Yordanoff (gen. Auguste Mercier), Didier Sandre (gen. Raoul Le Mouton de Boisdeffre), Vincent Grass (gen. Jean-Baptiste Billot), Hervé Pierre (gen. Charles-Arthur Gonse), Laurent Martella (cap. Ferdinand Walsin Esterhazy), Vincent Perez (Louis Leblois), Luca Barbareschi (Philippe Monnier). distribuzione: 01 Distribution – durata: due ore e 6 minuti