Latitudine Italia – Inizio stagione – I: Le grandi firme.

di Guido Reverdito.

A quasi due mesi dall’inizio ufficiale della stagione 2019-20, è tempo di fare un primo (e ovviamente provvisorio) bilancio sullo stato di salute del cinema italiano. Sia per il tipo di prodotti approdati in sala fino a questo primo giro di boa autunnale che per la risposta degli spettatori e per le perenni difficoltà che l’industria nostrana ha nel competere con megaproduzioni a stelle e strisce (e a questo proposito basti pensare all’asso pigliatutto di Joker, capace di polverizzare ogni record di incassi dal momento in cui è entrato in programmazione sul territorio italiano e a tutt’oggi saldamente in testa alle classifiche del box office).

Per tastare il polso al cinema di casa nostra, vale la pena prendere le mosse da un incoraggiante dato numerico relativo alle presenze: complice anche in parte l’iniziativa di MovieMent, sembra che non siano stati in pochi quelli che in piena estate hanno tradito spiagge e ombrelloni preferendo la frescura artificiale di quelle sale che hanno aderito alla meritoria iniziativa lanciata dall’industria dell’audiovisivo di casa nostra (unita per una volta tanto in tutte le sue componenti produttive e distributive) per far sì che il prodotto cinematografico venga fruito per dodici mesi l’anno evitando così la solita desertificazione estiva nelle sale e il fastidioso chiuso per ferie che dalle nostre parti è da sempre il basso continuo del cinema da giugno a fine agosto.

A fare da apripista a un selezionato manipolo di grandi firme proprio negli ultimi giorni del mese in cui di solito a tutto si pensa meno che ad andare a vedere un film ci ha pensato Pupi Avati, che con Il signor Diavolo ha fatto la gioia di quanti lo hanno da anni consacrato a maestro dell’horror nostrano (da molti critici ormai rubricato in un sottogenere creato ad hoc e noto con l’etichetta di «gotico padano»). A parecchi anni di distanza da titoli di culto quali Balsamus — L’uomo di Satana, La casa dalle finestre che ridono, Zeder e L’arcano incantatore, partendo dal proprio romanzo omonimo pubblicato lo scorso anno, l’ottantunenne maestro bolognese è tornato a riproporre atmosfere e inquietudini di quei titoli che gli hanno ritagliato un posto di tutto rispetto nel panorama dell’horror quasi integralmente incentrato sull’angoscia dell’attesa di eventi imprevedibili e su stati di degenerazione morbosa che affliggono intere comunità rurali. E non è infatti un caso che anche la storia de Il signor Diavolo, ambientata nel nord-est contadino nel 1952 in cui fede e superstizione dominano incontrastate sotto l’egida soffocante dello strapotere democristiano, sia una torbida vicenda di morte e malattia sullo sfondo di un’Italia rurale bloccata nel guado di un Medioevo di ritorno.

Parlando di grandi firme, non si può non includere in questa sorta di gruppo di nomi affermati e con carriere più o meno lunghe e fortunate alle spalle anche Francesca Archibugi, Mario Martone e Franco Maresco. Reduce dall’esperienza del remake de Il nome del figlio e dell’adattamento dal libro di Michele Serra Gli sdraiati, con Vivere la regista romana è tornata a muoversi in territori che le sono più congeniali. E cioè le dinamiche interne a famiglie più o meno disfunzionali i cui precari equilibri di sopravvivenza al minimo sindacale rischiano sempre di essere messi in crisi dall’avvento di fattori esterni non pronosticabili e nelle quali a farne le spese sono spessissimo i figli in età critica. E se chi ama il suo cinema non avrà fatto fatica a respirare di nuovo le atmosfere di delicata introspezione nel cuore dei personaggi apprezzate in titoli importanti (e ben più riusciti) quali Il grande cocomero o Mignon è partita (col quale Vivere condivide l’avere nell’arrivo di una ragazza straniera il detonatore che fa implodere la famiglia già sull’orlo di una brutta crisi di nervi protagonista di questa sua ultima fatica di regista e sceneggiatrice. Ma anche se per questo la Archibugi sembra giocare in casa, Vivere non convince del tutto proprio perché mostra ben poco di quella vita vera cui il titolo farebbe riferimento: complice una sceneggiatura (scritta a sei mani con Paolo Virzì e Francesco Piccolo, sodalizio che aveva già toppato nel mediocre Notti magiche diretto da Virzì e affetta da vizi analoghi a quella che fa da supporto narrativo al film della Archibugi) che punta troppo sui continui colpi di scena da soap televisiva e riduce i personaggi a stereotipi lisi più che a ritratti di protagonisti del mondo in cui viviamo, Vivere finisce col sembrare scollato dalla realtà che aveva invece in mente di raccontare.

Cosa che invece non è successa affatto a Franco Maresco, altro pezzo da novanta del cinema di casa nostra approdato nelle sale in questi primi due mesi di programmazione. Fedele alla sua idea di cinema civile impegnato a denunciare le attrazioni fatali per l’universo del crimine di una Sicilia sbattuta sullo schermo sempre senza infingimenti edulcorati ma con la rabbia di chi fatica ad accettarne il degrado socioculturale, con La Mafia non è più quella di una volta l’autore di Totò che visse due volte, Il ritorno di Cagliostro e Belluscone – Una storia siciliana celebra in maniera tutta sua il 25esimo anniversario delle stragi di Capaci e Via D’Amelio. Per farlo, Maresco affianca in maniera molto provocatoria (com’è nel suo stile fin dai tempi delle dissacrazione di Cinico TV col compagno di merende visuali Daniele Ciprì) l’opera della fotografa ottantenne Letizia Battaglia che per mezzo secolo ha raccontato Cosa Nostra con l’obiettivo della sua macchina e Ciccio Mira, ambiguo figuro del sottobosco criminale palermitano, celebre organizzatore di eventi canori che qui viene chiamato in causa perché responsabile di un bizzarro concerto di neomelodici organizzato nel quartiere Zen di Palermo per celebrare appunto la memoria dei due magistrati freddati dalla Mafia nell’estate del ’92. E il film di Maresco – presentato a Venezia e come sempre accade con quasi tutti i suoi film accompagnato da strascichi polemici di varia natura e provenienza –, pur rischiando di regalare all’ambiguo Mira un ruolo e una presenza fin troppo debordanti, prende il toro per le corna e ha il coraggio di analizzare a che punto sia la lezione e la memoria dei due eroici magistrati uccisi 25 anni fa, sospese come sono tra la celebrazione forzata e rituale e l’oblio inconscio, là dove non si arrivi perfino al disprezzo.

Non meno coraggioso è stato Mario Martone nel trasporre sul grande schermo una delle opere teatrali più celebri di Eduardo De Filippo. Partendo dall’allestimento fatto dal collettivo di attori indipendenti del teatro NEST di San Giovanni a Teduccio, Martone ha scelto di aggiornare Il sindaco del rione Sanità agendo non tanto su aspetti banalmente esteriori quanto piuttosto sul rinnovato rapporto che nei quartieri più degradati del ventre partenopeo sembra oggi esserci tra criminalità, giustizia e poveri cristi sospesi tra il sopruso della malavita e l’impossibilità di essere protetti da una giustizia che premia solo chi ha santi in Paradiso. Recitato in napoletano stretto (il che ha creato non pochi problemi di comprensione a chi non sia della zona), il Sindaco di Martone non è più il bonario e saggio Antonio Barracano che, vittima a sua volta nell’infanzia dell’astuzia che si mangia la giustizia, con la faccia di Eduardo De Filippo faceva da pacato mediatore cercando di dirimere contese destinate altrimenti a essere risolte con le norme della guapperia senza mai approdare in tribunale. Il suo Sindaco – che ha la faccia del guaglione doc Francesco Di Leva –, pur potendo sempre contare sul prestigio che gli deriva dall’essere un ex guappo (con un passato turbolento e un omicidio alle spalle), divenuto paladino dei più deboli, è oggi un incrocio tra un culturista e un rapper di borgata. Sempre a rischio, come già in passato, di essere in odore di camorra per la continuità spaziale col mondo all’interno del quale amministra la «sua» giustizia dando un aiutino a quella dello Stato di diritto, il Sindaco di Martone non rischia nemmeno oggi di essere confuso per uno dei delinquentelli che gli si rivolgono per farsi proteggere o perché la sua parola decisiva ponga fine a una querelle prima che ci pensino i coltelli e le pistole. La sua è una equidistanza di sicurezza che non lo pone ai margini della legalità ma che allo stesso tempo non lo allontana eccessivamente da quella terra di mezzo che è il rione Sanità di cui Antonio Barracano porta sempre tracce comportamentali nel DNA senza però mai finire con l’essere assimilato all’umanità che gli si rivolge per risolvere le proprie beghe più o meno meschine. E se l’impianto teatrale dell’opera letteraria che sta alla base dell’intera operazione traspare immediatamente nelle raffiche di dialoghi serrati che sul palcoscenico permettevano a Eduardo di gigioneggiare a piacimento nel salotto di Barracano sfornando pillole di saggezza divenute modi di dire nel linguaggio comune della Napoli di tutti i giorni (un solo esempio tra tutti il celebre «la vita si disperde» qui riveduto e corretto nel più duro «la vita si rispetta»), Martone ha scelto di far respirare la sceneggiatura movimentandola con l’aggiunta di scene in esterni girate in loco, nuovi ambienti non presenti nell’originale e una marcata insistenza su giochi di luce e ombre per sottolineare le distanze tra il Sindaco e la sua colorita clientela di guappi in crisi. Restando sempre nell’àmbito degli aggiornamenti del testo di partenza, a chi poteva poi pensare che un testo scritto e rappresentato per la prima volta 69 anni fa potesse essere datato e non offrire adeguati spunti di riflessione sul presente in cui viviamo, Martone dimostra che le cose non stanno affatto così. Temi che potevano sembrare in linea solo con l’era del crimine in cui il testo era stato scritto risultano invece di forte attualità anche oggi. Ed è per questo che il Sindaco di Mario Martone ci torna sopra calcando la mano là dove c’è spazio di manovra per parlare di un mondo — il sottobosco della microcriminalità del rione Sanità — che non ha mai cambiato pelle: oggi come ieri la dicotomia tra lealtà e tradimento è sempre attuale, e lo stesso dicasi per il tema dell’ignoranza di chi è esposto al sopruso perché «non sa», o quello della necessità di interrompere le catene di vendetta col ricorso alla mediazione guidata, o ancora la possibilità che chiunque ha di fare un passo indietro tornando su scelte sbagliate grazie nella positività del buon senso e all’uso assennato del libero arbitrio.

In questa carrellata di pezzi da 90 del cinema di casa nostra non poteva di certo mancare il nome di Gabriele Salvatores, che con Tutto il mio folle amore torna al cinema dopo la prolungata parentesi fantasy del dittico de Il ragazzo invisibile e l’esperienza collettiva del documentario Italy in a day. Liberamente tratto dal romanzo Se ti abbraccio non aver paura di Fulvio Ervas (che a sua volta era incentrato su una vicenda realmente avvenuta ma in terra americana seppure con protagonisti italiani) e presentato all’ultima kermesse veneziana fuori concorso, questo atipico road movie in terra balcanica segna il ritorno del regista premio Oscar a tematiche e atmosfere a lui congeniali soprattutto nella prima e forse più felice stagione produttiva. E cioè il viaggio di gruppo come (ri)scoperta di se stessi spesso all’insegna di un ripensamento del proprio passato nell’ottica di stabilire parametri costruttivi per possibili ripartenze verso il futuro. Al centro della vicenda c’è il sedicenne Vincent che, affetto da una forma non gravissima (ma comunque penalizzante) di autismo che ne rende la gestione non agevole, vive con la madre e con l’uomo che lei ha sposato ma che non è il padre del ragazzo pur avendolo legalmente adottato e che gli vuole bene come se fosse figlio suo. Tutto sembrerebbe potere procedere sui binari di questa non facile routine fatta di equilibri instabili. Se non fosse che all’improvviso ricompare il vero padre del ragazzo, un cantante spiantato che si barcamena cantando nei matrimoni in giro per i Balcani. Il suo ingresso a gamba tesa nella vita del figlio da lui abbandonato non appena era venuto a conoscenza della gravidanza della donna con cui stava sedici anni prima è l’elemento scatenante che imprime una piega vorticosa all’intero script: anche se Willy — il padre immaturo e irresponsabile — capisce benissimo che Vincent è un ragazzo molto particolare e non facile da gestire, ciò non ostante si imbarca con lui in un folle viaggio in moto in giro per terre sconosciute, inseguito da una parte dai fantasmi dei propri sensi di colpa e dall’altra dalla madre e dal patrigno del ragazzo, decisi a riportarlo a casa, consapevoli come sono di quanto destabilizzante possa essere l’avventura on the road in cui il padre ha deciso di coinvolgerlo. Nuovamente ambientato in quel nord-est che da tempo sembra affascinare il regista milanese (basti pensare al Friuli di Come Dio comanda, alla Transnistria di Educazione siberiana o alla Trieste de Il ragazzo invisibile), Tutto il mio folle amore è destinato a piacere moltissimo a chi ha amato la dimensione on the road del suo cinema. Titoli come l’ormai mitico Marrakech Express, Turnè o Puerto Escondido sembrano qui gettare una lunga ombra protettiva sulla cavalcata in moto in cui padre e figlio si imbarcano in giro per le lande desolate di Balcani. E come in quei titoli, anche qui il viaggio diventa non solo occasione di fuga da un mondo che sta stretto ai personaggi che ne accettano lo scarto dalla routine (in Tutto il mio folle amore un padre irresponsabile cerca di ovviare ai propri sensi di colpa facendo evadere — anche solo per una breve parentesi esistenziale — il figlio dal confort zone che la madre ha creato intorno alla sua incapacità di dialogare col mondo), ma anche occasione di mutua conoscenza tra chi crede di conoscersi ma in realtà ignora la vera essenza dell’Altro o non si conosce affatto e deve apprendere le vie migliori per farlo. Anche se diversa dalla vicenda «reale» raccontata nel volume che fa da riferimento alla sceneggiatura (non solo per lo spostamento spaziale della vicenda ma anche per i caratteri più marcati dei personaggi), la storia raccontata in Tutto il mio folle amore conferma una volta di più la capacità che Salvatores ha già mostrato in molte altre pellicole di raccontare la gioventù e la sua incapacità di sentirsi a proprio agio in un mondo dominato dalle regole spesso incomprensibili degli adulti. Basti pensare ad Amnèsia, Io non ho paura o al già citato Come Dio comanda. Se per il suo Vincent è l’autismo l’ostacolo che gli impedisce di trovare un posto nel mondo, la sensazione di inadeguatezza che lui prova nel rapportarsi con quanto lo circonda (e che solo in parte gli verrà abrasa dal folle ma liberatorio viaggio in moto col padre) altro non è che l’ingorgo emotivo in cui finisce per sentirsi ingabbiato chiunque esca dall’adolescenza e si trovi spaesato ad affrontare il proprio ingresso nel mondo dei grandi. Forte di questi saldi riferimenti tematici che richiamano il proprio cinema a livello inevitabilmente autoreferenziale, Salvatore corre però il rischio di avventurarsi un a specie di operazione nostalgia. Come se alle soglie dei settant’anni il suo cinema cercasse di trovare linfa vitale recuperandola da titoli che quei temi li proponevano con la freschezza della giovinezza e l’autenticità del primo approccio, carichi di entusiasmo sanguigno e non ancora esposti al rischio latente delle sirene del manierismo strisciante. E se in Tutto il mio folle amore questo rischio è fortemente ridotto, lo si deve anche in parte alla scelta del cast: con il talismano Diego Abbatantuono nei panni del patrigno di Vincent — Abbatantuono che Salvatores si porta dietro fin dai tempi di Mediterraneo come una sorta di amuleto che battezza molti suoi film alternando prove da gigione a personaggi portatori sani di ventate di umorismo in contesti non certo leggeri come nel caso di questo suo ultimo film —, ma soprattutto un Claudio Santamaria strepitoso non solo nel dare credibilità a questo padre immaturo e irresponsabile in cerca di se stesso attraverso il recupero del rapporto col figlio rinnegato fino all’embrione, ma anche a cantare Modugno (visto che nel mondo in cui lavora lo chiamano «il Modugno di Dalmazia»). Ma su tutti una nota di merito va al sedicenne ed esordiente Giulio Pranno che recita nei panni dell’autistico Vincent: scelto da Salvatores all’interno di un gruppo di giovani aspiranti candidati al Centro sperimentale di cinematografia respinti al provino di accesso al corso (ma proprio «per usare l’energia della sua rabbia di escluso», come dichiarato dal regista stesso), questo ragazzo sembra così vero e autentico nei suoi improvvisi deragliamenti dalle norme comportamentali di base da aver fatto pensare ai più di essere egli stesso affetto dalla stessa sindrome che obnubila il suo personaggio nei rapporti che ha col mondo di fuori. Il che però non è affatto vero, visto che Giulio Pranno ha trascorso molto tempo con Andrea, il ragazzo autistico protagonista del libro di Fulvio Ervas cui il film si ispira liberamente, arrivando perfino a frequentare centri specializzati nella cura dell’autismo e organizzazioni che si occupano della gestione di persone affette da questo disturbo della personalità. Che sia nata una stella?

 

Film cui si fa riferimento nell’articolo

  • Il Signor Diavolo, di Pupi Avati
  • Il sindaco del Rione Sanità, di Mario Martone
  • La Mafia non è più quella di una volta, di Franco Maresco
  • Tutto il mio folle amore, di Gabriele Salvatores
  • Vivere, di Francesca Archibugi
Postato in Cinema Italiano.

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