di Juri Saitta.
Conosciuto soprattutto per le sue commedie intimiste e spesso in bilico tra la screwball comedy anni Trenta e le atmosfere di Woody Allen, Noah Baumbach nel corso della sua carriera ha certamente realizzato dei film interessanti e intelligenti, ma mai del tutto eccelsi e incisivi.
Questo almeno fino a “Marriage Story”, film con cui il cineasta statunitense firma la sua opera più matura e sentita, portando al Lido una delle più belle soprese della 76a Mostra del Cinema di Venezia, nonché uno dei titoli migliori del concorso.
Probabilmente ispirato al divorzio tra lo stesso Baumbach e Jennifer Jason Leigh, l’opera racconta le varie tappe della separazione tra il regista teatrale newyorkese Charlie e la sua prima attrice Nicole: dalla concordia inziale al coinvolgimento degli avvocati, dalla divisione dei beni all’affidamento del figlio, dalle litigate furibonde ai momenti di ritrovata amicizia.
Un percorso, quello dei due protagonisti, che il film racconta con grande equilibrio alternando in modo molto fluido dramma e commedia, dolcezza e amarezza, umorismo e melanconia, a volte anche all’interno della stessa sequenza. Ciò grazie soprattutto a una sceneggiatura alquanto calibrata e compatta, ricca di dialoghi brillanti e capace di dare ampio spazio anche ai personaggi secondari, in primis agli avvocati, ritratti come figure ciniche che per denaro complicano le pratiche di separazione e aizzano i due coniugi l’uno contro l’altro, esaltando i lati peggiori di ogni situazione e facendo emergere i rancori ancora inespressi dei loro clienti.
Uno script ben supportato dalle ottime interpretazioni degli attori, in particolare quelle dei protagonisti Adam Driver e Scarlett Johansson, le cui qualità recitative vengono comunque evidenziate dalla regia di Baumbach, volutamente invisibile e funzionale al racconto ma capace contemporaneamente di cogliere tutti quei piccoli gesti che rivelano le più lievi sfumature emotive e le più sottili evoluzioni psicologiche dei personaggi, si pensi per esempio alla lacrima furtiva di Nicole mentre mette a letto il figlio insieme a Charlie.
E anche se qui viene posta molta attenzione alle minime azioni dei personaggi, non mancano al tempo stesso delle sequenze più enfatiche ed esplosive, come per esempio quella della lite furibonda tra i due coniugi. Un momento caratterizzato da un forte crescendo drammatico accompagnato da una messa in scena che stringe sempre di più l’inquadratura sui volti dei personaggi per rendere maggiormente palpabile la tensione psicologica dell’episodio. Una sequenza, quest’ultima, che sembra omaggiare “Scene di un matrimonio” di Ingmar Bergman, titolo citato esplicitamente anche in una scena precedente, in quello che è un riferimento molto coerente con la vicenda raccontata (in fondo, Baumbach racconta la storia di un matrimonio attraverso la sua fine) e che sembra perciò fuggire a ogni forzatura intellettualistica e snobistica.
Con “Marriage Story”, il regista newyorkese realizza dunque una sorta di “Scene di un divorzio”, una commedia dolceamara al tempo stesso profonda e scorrevole, minimalista e brillante, classica e compatta, che rivela tutto il talento di scrittura e di regia del cineasta statunitense.
Il film dovrebbe essere disponibile dal 6 dicembre su Netflix, ma – vista la qualità del prodotto – si spera anche in una sua distribuzione nelle sale cinematografiche italiane.