di Juri Saitta.
Vincitore del Gran Premio della Giuria alla 76a Mostra del Cinema di Venezia, “L’ufficiale e la spia” (“J’accuse”) di Roman Polanski è stato uno dei film più apprezzati dalla critica presente al Lido, che l’ha lodato per il rigore storico e il vigore della messa in scena.
Tratta dal romanzo omonimo di Robert Harris, l’opera in questione comincia nel 1895, quando il capitano ebreo Alfred Dreyfus viene condannato, degradato ed esiliato dall’esercito francese con l’accusa di aver trasmesso informazioni segrete alla Germania. Quando l’ufficiale Georges Picquart prende il comando della Sezione statistica – dedicata al controspionaggio – viene in possesso di alcuni documenti che mettono in forte dubbio la colpevolezza del capitano e comincia perciò a indagare sul caso, malvisto però tanto dai generali quanto dal governo.
Anche se qui viene dedicato ampio spazio al tema dell’antisemitismo (centrale nella vicenda storica nonché particolarmente sentito dal regista), in realtà l’elemento narrativo più interessante del film risulta l’ostilità dell’esercito nei confronti delle indagini dell’ufficiale: disposti a tutto pur di non ammettere i propri errori e salvaguardare la loro reputazione, qui i militari rappresentano quelle istituzioni arroccate su se stesse e interessate soltanto a mantenere lo status quo, in modo non poi così dissimile dalla Troika di “Adults in the Room”, lavoro di Costa-Gavras sulla crisi greca presentato anch’esso a Venezia.
In tale direzione, non è certamente un caso che l’opera di Polanski non assuma il punto di vista di Dreyfus, ma bensì quello di Picquart, del quale segue scrupolosamente le azioni e le investigazioni. Un personaggio, quello dell’ufficiale, non particolarmente progressista o antirazzista (anzi, durante il film egli stesso dichiara di non aver particolari simpatie semite), ma spinto da un profondo senso del dovere che lo porta a scontrarsi con i militari e a scardinare il potere costituito. Ed è proprio grazie alla centralità di questa figura che l’opera dell’autore polacco si allarga dal suo contesto storico per portare avanti un discorso sulle istituzioni e, più in generale, sul senso di responsabilità che ogni individuo dovrebbe avere.
Tutti elementi tematici e narrativi portati avanti con uno stile molto classico e lineare, caratterizzato da una regia a tratti vigorosa (si pensi alla sequenza della degradazione di Dreyfus, girata con vera maestria), ma che forse difetta di una prima parte eccessivamente didascalica nella “cronaca” delle indagini e antiquata in alcune scelte formali (in primis, le dissolvenze sugli oggetti di scena).
Limiti che comunque vengono superati nella seconda parte, quando il film unisce finalmente le sue intenzioni (nobilmente) didattiche a un maggior respiro narrativo, permesso almeno in parte anche da un racconto non più incentrato sulle investigazioni di Picquart, ma piuttosto sulle resistenze dei militari e sui processi conseguenti alle azioni del protagonista.
Il risultato complessivo – pur lontano dai capolavori del regista polacco – è sicuramente notevole, grazie anche alle buone interpretazioni degli attori, tra cui spiccano Jean Dujardin nel ruolo dell’ufficiale ed Emmanuelle Seigner in quello della sua amante.