di Massimo Lechi.
Dopo le fortunate partecipazioni ai festival di Tangeri, Marrakech e Luxor, è arrivato anche in Tunisia, in concorso alla seconda edizione di Manarat (1 – 7 luglio 2019), La guaritrice (La guérisseuse), il nuovo film di Mohamed Zineddaine, colto e schivo autore italo-marocchino nato a Oued Zem, nella provincia di Khouribga, ma residente a Bologna sin dagli anni Ottanta.
Prodotto da Ouarzazate Films e Janaprod in collaborazione con Imago Orbis, sceneggiato dal regista insieme a Olivier Bombarda a partire da un groviglio di materiali autobiografici e di rimandi alla letteratura antica, La guaritrice è una tragedia contemporanea torbida e spietata, che concede ben poco al facile folklore. Una storia di morte e desiderio, ambientata in un Marocco contraddittorio, sospeso tra un passato di superstizione e magia e un presente di industrializzazione e inquinamento, con una grande fabbrica a incombere minacciosa sui destini della guaritrice Mbarka (Fatima Attif) e dei due uomini a lei legati, il figlio adottivo Abdou (Ahmed El Moustafid) e il cinico amante Chaayba (Mehdi El Arroubi).
A La Marsa, abbiamo parlato con Zineddaine del suo percorso artistico, del suo rapporto con la regia e la scrittura, e naturalmente de La guaritrice, che sarà distribuito a fine settembre nei cinema marocchini e prossimamente in inverno in Italia.
So che il percorso che ti ha portato a questa storia e a questi personaggi è stato piuttosto tortuoso.
Sì. Avevo preso i diritti di un romanzo, Piedi nudi, scritto da un ingegnere che vive in Canada. Il libro – autobiografico – raccontava gli anni della sua infanzia ed era ambientato in una città a quindici chilometri da Oued Zem, dove sono nato. L’avevo trovato molto intrigante: mi ci ero rispecchiato. Ma feci mettere nero su bianco nel contratto che ne avrei tratto un film solo a condizione che fosse stato un adattamento libero.
Talmente libero che alla fine hai lasciato perdere il romanzo.
In effetti, dopo aver iniziato a lavorare per dare una forma cinematografica – o scenica – alla storia, mi sono reso conto che quello che iniettavo di mio nel personaggio principale stava oscurando il libro. Allora l’ho messo da parte e mi sono concentrato sulla mia biografia. E a un certo punto è spuntata la figura di mia nonna, che era una guaritrice.
Che rapporto avevi con lei?
Pessimo. Avevamo un rapporto davvero pessimo perché in casa io ero quello che guardava sempre dal buco della serratura, e poi perché non sopportavo le cose che faceva – ad esempio gli aborti. E lei vedeva in me il diavolo. Non si è mai fidata e, chissà, forse inconsciamente desiderava uccidermi…
Il personaggio si è imposto, diciamo.
Sì, e a quel punto ho avuto bisogno di trovarle un ambiente. E allora sono ritornato dove sono cresciuto. Gli hangar, le gru, le fabbriche che si vedono nel film sono quelle della mia infanzia.
Colpisce l’ambientazione del tuo film. Questo villaggio oscurato dalla grande fabbrica, che inquina e pompa morte nell’aria. E poi il treno.
Il treno trasporta il fosfato, che contiene uranio e mercurio, passando ogni giorno dietro la casa di Mbarka. E c’è ovviamente un’associazione tra il veleno che lei inietta nel mondo e quello della fabbrica.
Il contrasto tra il villaggio e la fabbrica è simbolico.
E’ per creare un ponte tra il tradizionale e il moderno, tra l’ieri e l’oggi, tra il bello e il brutto. Ma anche, al di là del contrasto, per mostrare la coesistenza dei due mondi. Nel mio film è l’umanità, è l’uomo ad aver pagato lo scarto.
Tu però non idealizzi la tradizione e i suoi riti, che infatti sono incarnati da Mbarka, un personaggio malefico.
Sì, è una Medea. Lei è come una fabbrica inquinante in miniatura, come un treno carico di veleno dotato però di un’anima… Nel film non c’è nostalgia, non si piange sul passato. Io ho sempre voluto desacralizzare tutto ciò che è folklore, tutto ciò che è tradizione. Nel dramma antico l’eroe è condannato, ma ne La guaritrice in fondo è Mbarka che muore, sono quelli che sopravvivono a morire davvero. Per Abdou la morte fisica è una liberazione, mentre le due donne dovranno rimanere in questo mondo, sotto la fabbrica.
Infatti la possibilità di fuga, rappresentata dalla ragazza, che a un certo punto dai ad Abdou è abbastanza inconsistente.
Era anche per equilibrare drammaturgicamente la storia… Altrimenti mi avrebbero detto che sono contro le donne, come Schopenhauer. (sorride)
La tua volontà di desacralizzare la tradizione e i suoi miti è evidente, però tu nel film mostri anche le guarigioni magiche. La guaritrice Mbarka guarisce veramente i suoi clienti. Era così anche tua nonna?
Nelle guarigioni di mia nonna c’era un aspetto molto reale. Ma come persona aveva un lato ipocrita, e soprattutto diabolico. Per dirla con Nietzsche, aveva sempre il diavolo che le sussurrava nell’orecchio.
Il male è insito nella tradizione oppure è proprio solo di Mbarka?
Come in tutti i periodi storici, sono convinto che ci fossero sia il bene sia il male anche nel passato che ha prodotto il folklore che mostro ne La guaritrice. Però stavolta, forse inconsciamente, la mia scrittura è andata verso il male.
Che rapporto c’è per te tra scrittura e regia?
Sono sicuramente due vasi comunicanti. Però, come sosteneva Cioran, scrivere si scrive soprattutto per una miseria interiore. In generale, secondo me, film e romanzi si fanno con testa, cuore e pancia: se viene a mancare uno dei tre elementi, sei fottuto.
Tu fai film in grande autonomia, sceneggiando, dirigendo, producendo e curando personalmente i casting. Sei un autore totalmente indipendente. Ti pesa questa condizione?
Io non ho un nome da difendere. Nessun produttore viene da me con una valigetta piena di dollari a propormi lavori su commissione, e personalmente la considero una fortuna. Ogni quattro anni faccio un film e va bene così. Il mio tempo non è in vendita, anche perché conduco una vita semplice e il mio quotidiano non mi costa. Posso dire e urlare quello che voglio, senza che nessuno mi tolga il biberon.
C’entra, immagino, anche il fatto che sei arrivato al cinema piuttosto tardi: il tuo primo lungometraggio è del 2004. Non sei uno di quelli che a vent’anni giravano corti in Super 8.
No no, io come regista sono nato postumo… (ride)
C’hai messo una vita.
Ma è una un bene, perché il mio vissuto oggi per me è una miniera. Non ho bisogno di andare a cercare storie in giro.
Quando hai lasciato il Marocco?
Sono arrivato in Europa, a Nizza, che avevo ventiquattro anni. Mi ero iscritto all’università per studiare informatica, ma non avevo borse e dovevo lavorare. Quando adesso vado a Cannes, mi imbatto sempre in una villa in cui all’epoca avevo fatto il manovale… Ci abitava una francese, sposata con un pilota inglese. Nelle pause pranzo tiravo fuori il mio panino e mi mettevo a leggere sotto un albero. Questa cosa le dava un fastidio incredibile: non poteva accettare che un operaio tenesse un libro in mano.
In Francia la cultura è per tutti, dicono…
La periferia è per tutti, la cultura invece è per il “salotto”… Sono favole.
E poi, dopo questo primo periodo in Francia, ti sei trasferito in Italia.
Un giorno mi sono detto: adesso vado a Genova, a fare un giro. La prima parola che ho sentito salendo sul treno è stata “fortuna.” Poi sono andato a Firenze, e da lì ho chiamato il mio padrone di casa a Nizza per dirgli di buttare pure via tutta la mia roba, ché tanto non sarei tornato più. E sono rimasto in Italia.
Dove hai fatto di tutto per mantenerti.
Di tutto.
Quando hai capito che avresti voluto creare qualcosa di tuo? E’ stato un momento preciso, magari a seguito di qualche incontro, o pensi sia stata una decisione maturata nel tempo?
Non ricordo un momento preciso… Devo dire che il mio sogno, sin da adolescente, era quello di essere romanziere. Sono sicuro che senza la letteratura sarei diventato un assassino, sarei finito in un qualche carcere. E infatti la scrittura è una costante nel mio lavoro cinematografico: Réveil parla di uno scrittore e Colère di uno scrittore-giornalista, mentre ne La guaritrice c’è tra i protagonisti un ragazzo che vuole imparare a scrivere. Alla fine, sono uno scrittore mancato.
Pensi che questo sia dovuto a un problema di lingua? Tu sei trilingue: parli arabo, francese e italiano. Ma di fatto nessuna delle tre è tua al 100%.
Sì, esatto. Mi sento straniero in tutte e tre le lingue che uso nella vita. La lingua, secondo me, è un qualcosa che ci abita, che avvolge i nostri pensieri, che ci aiuta a scolpire le nostre idee. Se non possiedi una lingua completamente, è la fine… Non è un caso che quando si vuole colpire un paese si proibisce la sua lingua.
E’ quello che successe in Marocco decenni fa con i berberi, se non sbaglio. Lo ha raccontato recentemente Nabil Ayouch in Razzia. Tu stesso sei di origine berbera, giusto?
Mah, così dicono. Però, a queste mitologie, ci credo poco. Cultura, bandiera, nazione… Io, per esempio, non ho mai votato: sono un disertore. Cose come il matrimonio o la moneta per me sono state create per interesse, e per controllare le persone. Ma purtroppo non posso rifuggirle: da certe mercanzie e da certi mercanteggiamenti non si può scappare.
E la lingua del cinema – ammesso che tu la consideri una lingua? Ha preso il posto di quella letteratura che avresti voluto produrre?
No, non credo. Attraverso le parole riesco ancora a rappresentare il mio pensiero in un modo che attraverso i film mi è impossibile. Il cinema è un miracolo: si fa sempre fatica a credere di aver effettivamente girato quello che si vede sullo schermo – soprattutto se quel qualcosa piace agli altri.
Mi sembra che tu abbia un rapporto abbastanza particolare con il cinema.
Io non riesco a capire quelli che, quando gli si chiede che mestiere fanno, rispondono “il cineasta.” Contrariamente alla scrittura, per me il cinema non è un mestiere: è un divertimento. Al di là del discorso estetico, al di là del costo economico, penso che chiunque possa girare un film. E’ vero che per farlo bisogna convincere cinquanta-sessanta persone, ma c’è chi lo fa da dittatore e chi con leggerezza. Io, se voglio, aiuto il macchinista, giro qualcosa al posto del direttore della fotografia, mi metto in fila con gli altri per prendere il mio piatto a pranzo. Questa idea secondo cui bisogna mettersi tutti al servizio del regista è una mistificazione.
E’ la storia dell’industria cinematografica, in fondo.
Ma se tu vedi la lista delle vittime di questa industria, ti viene da arrossire. Sto leggendo proprio adesso un bellissimo libro di conversazioni con i miti del cinema di Peter Bogdanovich… E’ una galleria – quasi un cimitero – di persone di straordinario talento. Tutte finite nella merda.