di Massimo Lechi.
Produttrice e donna di festival di grande fama, Dora Bouchoucha è la signora del cinema tunisino. A lei, nel 2018, si sono rivolti il CNC – Centre National du Cinéma et de l’Image Animée, il CNCI – Centre National du Cinéma et de l’Image e l’Institut Français di Tunisi per lanciare Manarat (fari, in arabo), un’ambiziosa manifestazione cinematografica dedicata al Mediterraneo, con proiezioni gratuite sulle spiagge delle più note località costiere della Tunisia. L’esperimento, accolto con inaspettato favore dal pubblico, è stato replicato in questo 2019, tra l’1 e il 7 luglio, in un clima complessivamente molto disteso – nonostante gli attentati esplosivi che hanno preceduto di pochi giorni l’apertura.
E l’esperienza di Bouchoucha, che al suo attivo ha pluripremiati lungometraggi di Raja Amari e Mohamed Ben Attia oltre a ben tre edizioni delle Journées Cinématographiques de Carthage, insieme a quella del suo agguerrito gruppo di collaboratori, si è rivelata ancora una volta determinante per il successo del festival.
Questa intervista, che ha avuto luogo in un caldo pomeriggio a La Marsa, ha offerto l’opportunità di tracciare con lei un primo approssimativo bilancio di Manarat, di discutere dello stato di salute del cinema tunisino e di ripercorrere alcuni passaggi della sua fortunata carriera, trascorsa tra gli uffici di produzione della Nomadis Images, i laboratori di scrittura per giovani talenti arabi e africani e i red carpet più esclusivi.
Le reazioni alle prime due edizioni di Manarat vi hanno sorpreso?
Di fatto sì. Quando abbiamo iniziato, lo scorso anno, le persone intorno a noi erano un po’ sospettose. Davvero pensate che il pubblico verrà in spiaggia a guardare film di sera?, ci chiedevano. E noi ci siamo detti: be’, proviamo. E alla fine, nonostante ci fosse la Coppa del Mondo, la gente è venuta. Questo ci ha aiutato a continuare, e ci ha spinto in questa seconda edizione ad aggiungere proiezioni ogni giorno e ad allargare il festival ad altre nove città sulla costa.
Il programma di Manarat 2019 infatti è molto più ricco.
L’anno scorso non avevamo proiezioni fuori Tunisi tutti i giorni. Si può dire che il nostro, sia da un punto di vista finanziario sia da un punto di vista logistico, fosse ancora un tentativo. Ma il fatto che ci sia stata sempre così tanta gente ci ha convinto.
E’ un festival per il pubblico, in fondo. E nella migliore tradizione nordafricana, aggiungerei.
Sì, il concept è proprio quello di un festival per il grande pubblico. Per gli amanti del cinema.
E non per addetti ai lavori.
No, per gli spettatori. Molti dei quali, soprattutto i teenager fuori Tunisi, so che non hanno mai messo piede in un cinema. Il fatto che loro possano vedere un film insieme ad altre cinquecento od ottocento persone, e che si crei così una sorta di comunione, per me è molto importante.
I cinema pieni ci sono solo a Tunisi durante le Journées Cinématographiques de Carthage.
E infatti non è lo stesso pubblico. Per questo ci siamo detti: non aspettiamo che gli spettatori vengano al cinema, ma andiamo noi da loro. E in più il festival è gratuito, non si paga il biglietto. Ci si sdraia sulla sabbia e si guarda il film.
Voi avete tre grandi partner che hanno promosso e reso possibile il festival sin dalla sua prima edizione. La formula di Manarat è un qualcosa che è stato discusso insieme o che è stato proposto da un partner in particolare?
Il concept viene da Olivier Poivre d’Arvor, l’ambasciatore di Francia. Prima ancora di entrare in carica era venuto in Tunisia e mi aveva fatto notare che gran peccato fosse non riuscire a sfruttare adeguatamente le nostre bellissime spiagge.
E l’idea di dedicare l’evento ai film mediterranei? Avreste potuto fare un festival dedicato esclusivamente al cinema arabo, per esempio.
Be’, quello c’è già, a Gabès. E le JCC già sono dedicate sia al cinema arabo sia al cinema africano. La nostra intenzione è piuttosto di ricordare ai tunisini che sono parte del Mediterraneo – cosa che molti di loro tendono a dimenticare. Mediterraneo che anzi ormai vedono solo come un grande cimitero, mentre invece rappresenta la nostra tradizione, la nostra cultura.
Tra il 2008 e il 2015, lei ha diretto tre edizioni delle JCC con lo stesso team che oggi lavora a Manarat.
Alle JCC ho iniziato come volontaria, da studentessa. Servivo il caffè ai membri delle giurie e traducevo un po’ per loro. Avevo diciassette anni. Lo facevo soprattutto per avere la possibilità di vedere dei film, che per me erano davvero una finestra sul mondo. Ed è così infatti che ho scoperto cinematografie di altri paesi, come quella argentina, quella tedesca o quella iraniana. Poi, nel 1992, ne ho curato un’edizione in cui si è organizzato un grande market e i workshop che in seguito sono diventati il Takmil.
Da direttrice però si è impegnata soprattutto nel rilancio del festival.
Quando ne ho preso le redini, le JCC non erano esattamente in gran forma… Abbiamo cambiato molte cose, le abbiamo fatte diventare un po’ più mondane e meno militanti. E per questo alcuni ci hanno criticato.
Militanza e cinema sono concetti inscindibili in gran parte del mondo arabo. Nei festival della regione c’è poi sempre questo mix piuttosto spiazzante di mondanità – tappeti rossi, smoking e lustrini – e film politici da sostenere a pugno chiuso.
Ah, io qui all’inaugurazione ho detto di venire scalzi! E riguardo al militare, tutti noi militiamo sempre per qualcosa. Ma la militanza stile anni Sessanta oggi non funziona più.
Limita un festival?
Certo, lo limita. Io poi alle JCC usavo un red carpet molto piccolo, mentre invece oggi ne hanno uno che va da Tunisi fino a La Marsa! E un’altra cosa che ho fatto, prima di dimettermi, è stata quella di renderle un festival annuale. Non c’era più ragione di farlo ogni due anni. Aveva senso negli anni Sessanta, quando nella regione c’erano poche produzioni.
Oggi il numero è cresciuto enormemente.
E inoltre come puoi importi nel panorama festivaliero se il periodo e le date non sono le stesse ogni anno?
Perché ha lasciato l’incarico alle JCC?
Mi sono dimessa perché sono una produttrice. Lavorando al festival ho penalizzato i miei registi, che naturalmente non potevo mettere in programma. Stessa cosa a Manarat: puoi vedere tutto qui, tranne i nostri film.
Come vede la situazione del cinema tunisino?
In Tunisia, a differenza dei paesi confinanti, è grazie alle produzioni nazionali che gli spettatori sono tornati nelle sale. Penso che il cinema tunisino sia in ottima salute: c’è grande varietà di temi e di punti di vista. E’ uno dei motivi per cui non condivido il fatto che si parli in termini di “cinema arabo”: questa visione monolitica spesso mi fa arrabbiare sul serio. Quando diciamo “cinema europeo” intendiamo una cosa molto diversa: intendiamo le varie cinematografie dei paesi del continente. Mentre invece molti pensano che il cinema arabo sia tutto uguale, che sia la stessa cosa in tutta la regione.
E’ una semplificazione politica, probabilmente. Una forma di panarabismo cinematografico.
Sì, ma noi vogliamo eliminare questa visione. Le cose oggi procedono veloci. Un film libanese e un film algerino non sono la stessa cosa, esattamente come un film inglese e uno spagnolo. Ogni paese ha le sue specificità, e al suo interno ci possono essere proposte diversissime.
C’è il panarabismo ma c’è anche la questione dell’influenza occidentale, in termini sia artistici, di forma, sia produttivi.
Questo discorso era valido vent’anni fa. Ricordo che uno dei nostri primi film importanti, Satin rouge di Raja Amari, venne approvato dal ministero in Tunisia, ma subito dopo fu bocciato da Fonds Sud perché la protagonista non corrispondeva all’ideale di donna tunisina dei membri della commissione. Come può essere tunisina?, dicevano, Noi siamo stati in Tunisia e la gente non è così. Allora scrissi una lettera – che poi finì in parte pubblicata – in cui chiesi loro di spiegarmi che idea della tunisinità avessero. Davvero pensavano che la donna tunisina dovesse essere una sorta di portabandiera? O che non potesse avere una propria individualità? Se ne vergognarono… Sì, ricordo quella lettera.
Quindi la standardizzazione del cinema arabo dovuta all’influenza produttiva e artistica europea non è più un rischio concreto?
No, nemmeno un po’. E vale sia per gli arabi sia per gli africani in generale. Quando il contenuto è buono si difende da solo.
E’ interessante che a dirlo sia lei che lavora così tanto con l’estero – a cominciare dai fratelli Dardenne.
Ho co-prodotto con molti! Con i Dardenne, con ARTE… Ma, quando discutiamo, ci chiediamo se un personaggio è forte abbastanza. Quello di cui parli è un’idea che hanno certi registi più anziani, che pensano che l’Europa sia sempre lì a influenzarci. E’ però vero che ci sono delle tendenze, alle quali si può aderire o meno. Subito dopo la rivoluzione, per esempio, molti canali televisivi volevano soggetti sulle conseguenze della primavera araba. Mentre invece adesso non vogliono film su Daesh.
Dunque lei è ottimista.
Lo sono per il cinema tunisino, per quello arabo e per quello africano. Quando ero a Fonds Sud e all’Aide aux Cinémas du Monde leggevo molte sceneggiature provenienti da questa parte del mondo e percepivo sempre una grande freschezza, qualcosa di innovativo nel modo di affrontare i soggetti. Ma all’epoca quei registi non avevano gli strumenti.
Quest’anno la Tunisia ha sfornato Tlamess di Ala Eddine Slim, che venticinque anni fa non avrebbe mai potuto essere prodotto – e forse nemmeno concepito.
Vedi? Amo quel film. E’ un film molto forte sul nostro presente.
Pensa che, dopo gli exploit internazionali dei grandi registi egiziani e algerini come Youssef Chahine, Shadi Abdel Salam e Mohammed Lakhdar-Hamina tra gli anni Cinquanta e Settanta, il Maghreb e il Medio Oriente siano entrati per alcuni decenni in una specie di limbo?
Sì, assolutamente. Ma è perché si produceva poco. Se hai quantità, finisci con l’avere anche qualità. Bisogna fare, e poi cercare di fare meglio, di migliorare. E’ come per tutto il resto.