di Massimo Lechi.
Unico titolo italiano in concorso al cinquantaquattresimo Karlovy Vary International Film Festival (28 giugno – 6 luglio 2019), Giù dal vivo si è distinto nella sezione documentari per audacia e complessità.
Il nuovo lavoro del trentunenne campano Nazareno Manuel Nicoletti, a quattro anni dall’apprezzato Moj brate – Mio fratello (Cineasti del presente, Locarno 2015), è infatti un oscuro viaggio nella periferia di Napoli, luogo di dolore e solitudine, specchio di una globalizzazione spietata, girato senza compromessi estetici e narrativi, ma con grande, grandissima fiducia nello spettatore.
Spettatore che, dopo una vorticosa sequenza d’apertura con riprese aeree dei sobborghi napoletani accompagnate dalla voce di un narratore-ipnotizzatore (Massimiliano Gallo), viene letteralmente gettato insieme ai tre protagonisti del documentario – Pasquale, Nunzia e il Pugile – in una quotidianità metropolitana autenticamente spiazzante.
Dove hai incontrato i tuoi protagonisti?
L’incontro è dovuto a mia moglie, che è una psicologa. Dopo il mio primo film, in un momento in cui stavo preparando un lavoro di finzione, mi aveva parlato del laboratorio di scrittura autobiografica che stava tenendo con degli ex pazienti manicomiali. Così sono entrato in relazione con queste persone, e presto mi sono reso conto che ciò che mi interessava davvero non era la questione della malattia ma il loro spiazzamento esistenziale nel rapporto con l’altro. Per me erano figure iconiche, legate in qualche modo anche al mio immaginario cinematografico personale – aspetto che mi ha rapito da subito.
Come hai lavorato con loro?
All’inizio con delle sedute insieme, poi loro si sono aperti con me e ho potuto conoscere la loro vita privata. Il lavoro di scrittura è durato più o meno un anno. Avevo cinque-sei personaggi che alla fine ho ridotto a tre.
Cosa ti aveva colpito in particolare di Pasquale, di Nunzia e del Pugile?
Li ho scelti perché le loro storie raccontavano tutte una cosa che mi sta molto a cuore: la ricerca dell’essere umano di un posto da chiamare casa. E quindi poi ho deciso che il film doveva diventare un viaggio all’interno di una periferia globalizzata, dove c’è appunto uno spiazzamento prodotto dal rapporto con la città e con quello che c’è intorno.
E’ interessante il modo in cui hai legato, se così si può dire, le storie. I personaggi sembrano guardarsi e riguardarsi, sentendosi costantemente osservati. E in particolare uno di loro, il Pugile, segue gli altri sullo schermo di un televisore.
Sì, sono traiettorie “invisibili”, per citare Calvino. Le storie si sfiorano ma non si incontrano. E dunque i passaggi da una linea narrativa all’altra sono emotivi.
I tre protagonisti di Giù dal vivo vivono situazioni molto diverse ed è significativo il fatto che tu non ti soffermi per niente sul loro passato. Possiamo solo immaginare le loro storie: lo zitellone ormai anziano rimasto a casa con i genitori, la ragazza entrata e uscita dagli istituti di cura… E infine un misterioso uomo mascherato, che sembra vegetare agli arresti domiciliari.
Be’, il Pugile ha avuto esperienze di quel senso in passato, ma oggi è lui che si segrega. E’ lui che non esce.
Dunque uno dei cardini del tuo film è il rapporto con lo spazio, e non solo con la casa. Lo spazio fisico.
Sì, uno spazio che, attraverso un’immersione nel “visivo”, ho cercato di trasformare in spazio mentale. In labirinto, quasi.
La parte forse più spiazzante del tuo film è l’inizio, con la lunga ripresa della città vista dall’alto.
A livello drammaturgico, mi piaceva l’idea di iniziare con un’immersione ipnotica. E quindi ho scritto un testo, che ho fatto recitare a Massimiliano Gallo, che in qualche modo potesse far sì che lo spettatore si lasciasse andare durante la visione. Da lì, di fatto, ho costruito un viaggio di 74 minuti che per me è una sorta di seduta psicanalitica. Mi interessava una struttura polisemica che permettesse diverse strade interpretative.
Be’, già con la maschera del Pugile fai saltare tutte le coordinate.
La cosa importante per me è sempre l’autenticità, la fedeltà ai sentimenti dei personaggi. Non ti nascondo che, per arrivare al nocciolo delle loro storie e liberarle da tutti gli orpelli, non trovo assurda la messinscena. Spesso la messinscena è più vera della realtà. Però, per ottenere questo, c’è prima bisogno di un grosso lavoro documentario. Dopodiché tutto diventa un happening, una performance… Il Pugile è un personaggio paranoico, e nel rapporto con un paranoico c’è sempre un aspetto persuasivo e seduttivo. Lui, per far parte del film, voleva essere sedotto. Allora abbiamo fatto in modo che non risultasse riconoscibile sullo schermo: da qui le maschere, che io ho tratto da alcuni suoi dipinti. Ho ricostruito il suo immaginario.
E lui ne era consapevole?
Lui ne era perfettamente consapevole. E questo lavoro sul suo narcisismo alla fine ci ha permesso di aprire un canale, perché si è sentito coinvolto nel processo creativo.
Con lui hai fatto leva sul narcisismo. Invece immagino che con gli altri due sia stato tutto completamente diverso.
Sì, molto diverso. Con l’uomo, Pasquale, è stato più semplice perché si è immediatamente fidato di me, mi ha subito aperto casa. E infatti l’ho persino accompagnato in questo lungo viaggio da Napoli a Milano che lui fa ogni dicembre – portandosi dietro qualsiasi cosa – per rivedere le due sorelle. Nunzia invece per me è la storia emotivamente più toccante: c’è dietro un vissuto di grande drammaticità che ho volutamente trascurato… Penso si capisca che è un’autolesionista e che è cresciuta con dei genitori che, diciamo, avevano difficoltà a prendersi cura innanzitutto di se stessi.
A un certo punto inserisci nel film un suo vecchio filmato risalente, credo, alla prima comunione… E ti soffermi su un primo piano che è un pugno nello stomaco. Viene automaticamente da chiedersi che cosa le sia successo da quel momento in poi.
E’ proprio la domanda che mi interessava… La vediamo ballare nel filmato e poi dopo, nella struttura: sono balli sempre circolari ma molto diversi. Che cosa le può essere mai accaduto allora?, mi sono chiesto.
In Giù dal vivo non dai risposte però.
Il mio è un film che non risparmia lo spettatore… Gli do una buona dose di responsabilità, e io stesso me la prendo, politicamente ed emotivamente. Nel senso che noi siamo tutti complici di questa situazione. Le periferie che mostro sono il risultato della globalizzazione. Raccontarle – raccontare tutto ciò che spingiamo ai margini delle nostre città – penso sia importante in questo momento storico.