di Massimo Lechi.
Con la menzione speciale della giuria vinta nella competizione ufficiale e sei titoli distribuiti tra Un Certain Regard, Semaine de la Critique e Quinzaine des Réalisateurs, il Doha Film Institute (DFI) è stato certamente uno dei protagonisti del settantaduesimo festival di Cannes.
Suoi infatti i finanziamenti e il sostegno artistico e produttivo che, attraverso l’evento industry Qumra, hanno permesso la realizzazione di film come Adam di Maryam Touzani, Papicha di Mounia Meddour e soprattutto Abou Leila dell’algerino Amin Sidi-Boumédiène e The Unknown Saint del marocchino Alaa Eddine Aljem, due tra le opere prime meglio accolte dalla critica presente sulla Croisette. E suo il marchio apposto appunto su It Must Be Heaven, il quarto apprezzatissimo (oltre all’inusuale menzione è arrivato anche il Premio FIPRESCI) lungometraggio del cineasta palestinese Elia Suleiman, consulente artistico dello stesso Qumra.
Risultati e riconoscimenti, questi, non di poco conto per una organizzazione culturale no-profit nata formalmente nel 2010 per sostenere i talenti cinematografici della regione MENA e che oggi deve destreggiarsi in un contesto politico-diplomatico reso particolarmente difficile dalla quarantena in cui diversi paesi del Golfo e del mondo arabo hanno costretto il Qatar.
Dell’ormai decennale attività del DFI abbiamo parlato a Cannes con il suo CEO Fatma Al Remaihi e con Hanaa Issa, responsabile di Qumra e del ricco sistema di aiuti di cui hanno beneficiato nel tempo alcuni tra i più interessanti registi del panorama internazionale.
Avete sostenuto molto cinema in questi anni. C’è un progetto al quale siete più legate?
FAR: Oh, è come chiederci qual è il nostro figlio preferito! (ride)
HI: Esatto! Ne abbiamo così tanti…
Allora riformulo: quale è stato il progetto che, secondo voi, più di tutti ha cambiato il destino del DFI? Ce n’è uno nella storia di ogni casa di produzione, in fondo.
FAR: Non penso sia stato un film a cambiare il destino del DFI. Penso sia stato Qumra a cambiarlo: Qumra è stato il punto di svolta. Ma se parliamo di singoli film… Sai, ne abbiamo sostenuti quattrocento e ottantotto solo con i nostri fondi – senza contare i co-finanziamenti e le produzioni nazionali. E negli ultimi cinque anni sette sono andati agli Oscar. L’Academy si è accorta di noi.
Agli Oscar c’era naturalmente Cafarnao di Nadine Labaki, un caso cinematografico a dir poco clamoroso. E’ il film arabo di maggior successo di tutti i tempi, con un incasso record di cinquanta milioni di dollari in Cina, appena dietro gli Avengers. Ed è un film targato DFI.
HI: Sì, ci sono tanti partner nella produzione del film, però è anche targato DFI. E noi avevamo già sostenuto il suo lavoro precedente, E ora dove andiamo?
Che già aveva registrato buoni incassi.
HI: Sì, ed era anch’esso passato a Cannes… Siamo decisamente molto contenti di Nadine: è un grande talento. Ed è anche un modello per i registi della regione, e in particolare per le registe donne.
Piacciano o no i suoi film, con Cafarnao ha fatto la Storia.
HI: Sicuramente. E in più lei è molto attaccata alla sua causa, cosa che, da quanto ho letto, è stata percepita ovunque – persino in un luogo così distante da noi come la Cina. E’ una storia molto umana, quella del film.
Credo però che le reazioni tendano a variare a seconda del contesto culturale. Immagino che il discorso politico che lei fa sia chiaro soprattutto a uno spettatore libanese o comunque mediorientale. Da una prospettiva araba, in sostanza, è un film molto più audace di quanto non sembri da una prospettiva occidentale.
HI: Da spettatore puoi leggere il film ed estrapolarne gli aspetti più politici, ma non è la regista a farlo per te: lei è molto brava a non mettere la politica in primo piano. Penso che ogni membro delle nostre comunità si senta toccato e costruisca un parallelo tra ciò che accade sullo schermo e ciò che accade nel proprio paese. Quello che Cafarnao racconta esiste in tutto il mondo.
Il successo del film di Labaki è venuto appena due anni dopo Il cliente di Farhadi, che l’Oscar lo ha addirittura vinto. Ma ce ne sono stati altri, negli ultimi anni, alcuni dei quali realizzati al di fuori della vostra area geografica di riferimento.
HI: Il cliente è stato un hit. E prima ancora Timbuktu di Sissako, che ha vinto ai César ed è andato molto bene in sala, o Divines di Houda Benyamina. E poi il film di Nuri Bilge Ceylan… A volte mettiamo un piede fuori dalla regione, ma necessariamente ci concentriamo soprattutto sul Medio Oriente: da lì vengono i talenti con cui vogliamo lavorare. Tutti registi, questi, che spesso sono al primo o al secondo lungometraggio, e che grazie al nostro sistema di co-finanziamento e di concessione di fondi finiscono nelle sezioni parallele a Cannes.
O a Venezia. L’anno scorso il DFI è stato in grado di sostenere un film di un autore celebrato come L’albero dei frutti selvatici di Ceylan e, allo stesso tempo, un documentario sperimentale, dal forte contenuto politico e che è letteralmente spuntato dal nulla come Still Recording di Ghiath Ayoub e Saeed Al Batal.
HI: Sì, e c’è stato anche Loving Vincent, che è un film di animazione… Penso che negli anni abbiamo saputo sviluppare un buon know-how.
Questa compresenza di autori affermati ed esordienti riflette una vostra strategia o è un qualcosa che si è venuto a stabilire da sé? L’idea alla base di una piattaforma come Qumra, in altre parole, è sempre stata quella di attrarre sia giovani talenti sia grandi nomi alla Ceylan?
HI: Ceylan volevamo venisse a Doha come Qumra Master, perché tale, un maestro, lo consideriamo. Avrebbe potuto essere una grande fonte di ispirazione per i registi della regione presenti da noi con i loro progetti. Invece abbiamo finito con il collaborare per il suo film… Rithy Panh è venuto come Master e adesso facciamo insieme dei corsi di documentario: passa da noi sei mesi e fa da mentore ai giovani filmmaker. Stessa cosa fanno alcuni dei registi che hanno ricevuto i nostri finanziamenti: Annemarie Jacir, per esempio, o Tala Hadid, che ha lavorato in particolare con due registi qatarioti.
Ci sono insomma diversi livelli di coinvolgimento per i registi che rientrano nella vostra sfera.
HI: Esatto. Il nostro è come un ecosistema, che respira, cresce e produce energia. Quello che conta sono i rapporti: costruiamo rapporti molto forti con le persone con cui lavoriamo, e penso che tutti loro apprezzino la nostra filosofia. E’ uno sforzo d’amore.
La situazione nel Golfo rende più complicata la promozione dei talenti dal mondo arabo per un’istituzione come la vostra?
FAR: Chiudono molti fondi e chiudono molti festival, quindi noi ci sentiamo più responsabili, più determinanti per l’esistenza dei progetti. Il processo non è affatto facile, ma sappiamo di dover continuare a fare quello che facciamo e concentrare i nostri sforzi sul mondo arabo. E’ stata la nostra missione sin dal principio.
Anche il mantenimento di una rete internazionale è reso più complicato dalle tensioni politiche, immagino.
FAR: Il mix di relazioni che costruiamo in giro per il mondo va a beneficio dei nostri filmmaker, siano essi arabi o qatarioti. E’ una cosa in cui crediamo molto. Spesso questo non veniva capito: ci veniva chiesto perché non pensavamo più “local”… Ma senza un sistema di rapporti internazionali come avremmo potuto portare i nostri film fuori dal Qatar? Però ora sono felice che stia iniziando a esserci grande sostegno nei confronti della strategia che abbiamo intrapreso un decennio fa.
Avete avuto così tante difficoltà all’inizio?
FAR: E’ stato difficile sotto ogni aspetto. Il DFI, per il Qatar, è un qualcosa di pionieristico anche da un punto di vista culturale: prima non c’era nulla di simile. Ancora oggi, quando diciamo che andiamo a un festival, la gente pensa che giochiamo, perché non vede i film come li vediamo noi… E’ una questione di cultura, ma ci stiamo lavorando. Cerchiamo di far capire che il cinema va al di là dell’evasione e dell’intrattenimento.
Sono cambiamenti che richiedono tempo.
FAR: Infatti lavoriamo anche sui più giovani, letteralmente ogni giorno dell’anno, e non solo durante l’Ajyal Film Festival o Qumra. Vogliamo costruire il pubblico di domani. Ma comunque vediamo come oggi tutti stiano beneficiando dell’ecosistema che abbiamo creato.
Ed è mutato anche l’atteggiamento degli aspiranti registi originari del Qatar?
FAR: Sì. All’inizio venivano da noi e ci dicevano di voler fare dei film come a Hollywood. Mentre invece adesso ci dicono che vorrebbero avere lo stesso stile di un certo regista argentino o di un certo regista iraniano.
Questo si riflette concretamente anche nei loro lavori e nelle loro proposte?
FAR: Quando siamo nati, il primo anno, avevamo film con gli zombie… Ma ora vedo che si concentrano su storie più personali.
Elia Suleiman, che è qui in concorso con It Must Be Heaven, è però il regista a cui siete più legati. Lui è il vostro volto e ha certamente avuto un ruolo fondamentale nell’affermazione del DFI e di Qumra. Perché avete scelto di coinvolgerlo?
HI: Elia venne come ospite alla prima edizione del Doha Tribeca Film Festival, tanto tempo fa: era già uno dei cineasti più importanti della regione. Il rapporto con il DFI è iniziato allora, ma è stato cinque anni fa che è venuta l’idea di coinvolgerlo come consulente artistico di Qumra. Con lui ne abbiamo discusso il concept, che si è evoluto nel giro di un paio di edizioni.
FAR: Elia è di una generosità straordinaria. Viene in Qatar e passa intere giornate a parlare e ad andare in giro ovunque con i filmmaker locali, e questi incontri hanno un grande impatto sulla comunità. Non molti registi del suo livello lo farebbero.
Dunque possiamo dirlo: è stato lui a far svoltare il DFI.
HI: No no, te lo dico io che cosa ha cambiato il DFI: la nostra squadra. (ride)