di Renato Venturelli.
Kechiche ritorna a “Mektoub, My Love” e per il secondo episodio (“Intermezzo”) prende posizioni ancor più radicali. Elimina praticamente tutto l’intreccio, riduce al minimo lo sviluppo narrativo, concentra l’intero film in tre soli spazi, mantenendo però i tempi dilatati di oltre tre ore e mezza di durata complessiva.
La prima mezz’ora si svolge tutta sulla spiaggia, dove i principali personaggi s’incontrano e chiacchierano, tirandola anche un po’ alle lunghe: e se Hawks collocava la macchina da presa ad altezza d’uomo, Kechiche esibisce già provocatoriamente la sua intenzione di collocarla ad altezza di natica. Dopo un taglio netto di montaggio, tutti si ritrovano poi all’interno della discoteca e ci restano per tre ore, in un crescendo ossessivo di musica, balli, provocazioni erotiche, qualche scambio di dialogo e molti scambi di sguardi.
La scelta è radicale: un’immersione completa nel mondo surriscaldato della discoteca, sballottati tra corpi, luci, musica, erotismo, sempre rapportando il crescendo erotico ai due poli principali del desiderio, da una parte il corpo di Ophélie che balla, lancia occhiate e si aggiusta continuamente i capelli; dall’altra lo sguardo Amin, che resta sorridente e immobile al bancone, senza gettarsi nel ballo, ideale contraltare della macchina da presa, punto di profondità e di rimbalzo nel gioco di sguardi delle tre ore di discoteca. Il crescendo di eccitazione approderà alla sequenza di oltre dieci minuti di sesso nei bagni del locale, per poi tornare in sala per un progressivo rallentamento, fino all’appendice di pochi minuti, silenziosa e luminosa, nella camera da letto di Amin, con sguardo finale dalla finestra sulla luce del giorno e sul futuro.
“Mektoub, My Love – Intermezzo” è uno dei momenti forti del festival, un’opera di purissimo cinema da affiancarsi al Tarantino di “Once Upon a Time… in Hollywood”, un’immersione nella carnalità, nell’erotismo, ma anche in un piacere di cinema assoluto: ambientato ancora nella comunità franco-magrebina della Sète del 1994, instillando in molti il sospetto che i prossimi episodi possano riguardare la brusca fine di questa trionfante e libera fisicità. Uno dei film più travolgenti visti fino a Cannes 72, comunque: un trionfo del cinema come esperienza sensoriale ma anche come pura regia.
Ottimo anche Il traditore di Marco Bellocchio, che dopo “Vivere” o “Buongiorno, notte” affronta un altro momento della storia italiana attraverso la figura esemplare ed enigmatica di Tommaso Buscetta, il pentito per eccellenza, che però nel film ribadisce di non sentirsi affatto un pentito, un traditore, perché chi ha tradito la mafia sono i capi del momento, i Totò Riina che per sete di potere l’hanno stravolta. Bellocchio conferma non solo di essere il maggior regista italiano degli ultimi anni, ma di aver conquistato una sua classicità di scrittura e di vivere uno stato di grazia che dura almeno dai tempi di “L’ora di religione”.
In questo caso, il racconto è più lineare del solito, mancano quei momenti di visionarietà assoluta in cui sembrano crearsi sospensioni dell’andamento narrativo per attingere a dimensioni più profonde e irrazionali. Inevitabile, fin troppo scontato, osservare come anche in questo caso la Storia passi attraverso una serie di famiglie, a cominciare dalla Famiglia per eccellenza, quella mafiosa. Ma il film è innanzitutto un’indagine sul personaggio misterioso del “traditore”, figura sospesa letteralmente “tra due mondi”, visto quasi come personaggio tragico. E singoli momenti si staccano comunque, a cominciare dalla straordinaria orchestrazione del processo, dall’andamento quasi operistico, con una regia calcolatissima nel gestire i vari piani, fino a una conclusione che cita esplicitamente l’opera lirica. E con momenti destinati a restare nella memoria cinefila: come la scena in cui Buscetta (interpretato da un eccellente Favino) crede di trovarsi ormai al sicuro nel continente americano, ma in un ristorante si sente cantare “io sono un siciliano, un siciliano vero” all’interno dell'”Italiano” di Totò Cutugno, segno che la mafia l’ha raggiunto anche lì e vuol farglielo sapere.
Tra questi titoli di primissimo piano rischia ingiustamente di restare defilato l’ultimo film di Arnaud Desplechin, Roubaix, une lumière, anch’esso in concorso. Si tratta di un noir grigio e doloroso, ambientato nel Nord della Francia, con un ispettore di origine algerina cresciuto sul posto insieme alla sua famiglia, ma che adesso è rimasto da solo a Roubaix, mentre tutti gli altri suoi parenti sono rientrati in Algeria. La sua figura dolente acquista così una solitudine ancor più malinconica, mentre si accinge a indagare su un caso che affonda le sue radici proprio nella marginalità, nell’isolamento, nella fatica del vivere. Tutto inizia con un misterioso incendio in un quartiere di casette popolari, poi si scopre l’omicidio di un’anziana strangolata nel suo letto, le indagini conducono a una serie di personaggi da bassifondi: ma l’investigatore si sofferma soprattutto su due ragazze che vivono nella casa accanto, coinvolte prima come testimoni poi come sospette. C’è molto Simenon in questo sguardo sulla miseria e sul dolore umano, con l’ispettore che riconosce perfettamente il percorso compiuto dalle due ragazze, le loro difficoltà davanti alla vita. Non solo uno dei migliori film del festival, ma anche un film in cui Desplechin raggiunge un’asciuttezza e una complessa semplicità espressiva rara anche all’interno della sua opera.