di Renato Venturelli.
Dopo l’inaugurazione ufficiale del festival con “I morti non muoiono”, anche la Quinzaine apre con un film ironico dove si riflette con leggerezza sul fare cinema, ma lo fa attraverso il talento programmaticamente eccentrico e demenziale di Quentin Dupleix, autore anomalo dei circuiti festivalieri quasi completamente inedito nelle sale italiane.
Jean Dujardin interpreta in Le Daim uno sfaccendato quarantenne, appena piantato dalla moglie che gli ha bloccato tutti i conti, murato in una sua bislacca ossessione. Finito nella provincia più sperduta, investe tutti i suoi averi per comprarsi una vecchia giacca di daino con le frange e da quel momento decide di improvvisarsi regista. Convince tutte le persone a privarsi delle loro giacche, le filma, trova la complicità di una cameriera di paese che si diletta di montaggio e riprende personalmente la sua folle impresa di far sparire tutte le altre giacche in circolazione per celebrare la sua giacca. Fino a diventare sempre più ossessivo, a vestirsi tutto in pelle, a trasformarsi in un serial killer.
Dupieux ci ha abituati da sempre alle sue trovate demenziali (“surreali”, dicono), ma stavolta realizza forse il suo film più riuscito, dove naturalmente lo spettatore interessato può godersi anche le immancabili pseudo-riflessioni teoriche sulla stessa idea e pratica selvaggia di cinema. Un aspetto che si pone in parte come vera matrice del film e in parte come ennesima convenzione da irridere, fra trovate estrose, bizzarrie imprevedibili, battutine goliardiche (la cameriera che ha rimontato “Pulp Fiction” mettendo le sequenze in ordine cronologico).
L’inaugurazione della Quinzaine con “Le Daim” vuol forse anche suggerire un percorso prescelto, quello di un libero e ironico gioco col cinema, con i generi, con i personaggi. Subito dopo “The Daim” si celebra del resto John Carpenter, premiato con la Carrosse d’or (e la proiezione di un capolavoro come The Thing), mentre un altro degli eventi speciali della Quinzaine riguarderà Robert Rodriguez e il suo “Red 11”.
Molto più scontata e deludente, invece, l’inaugurazione di Un Certain Regard. La femme de mon frère della canadese Monia Chokri è il ritratto di una trentenne plurilaureata, incapace di inserirsi nel mondo, schiacciata in parte dalla sua stessa lucidità, legata da un rapporto strettissimo al fratello. Quando quest’ultimo si mette con la sua ginecologa, il triangolo rischierà di esplodere: un ritratto esemplare della condizione dei trentenni raccontata con toni sovreccitati da commedia grottesca, puntando su bruschi scarti del montaggio e della narrazione, cercando di riflettere nello stile l’impulsività e le angosce della protagonista.
Più interessante, semmai, il primo film del “Certain Regard”, anche se entro i cliché del cinema indipendente americano. Si tratta di Bull dell’esordiente Alicia Silverstein, ambientato nella provincia texana e imperniato sul rapporto tra una bambina allo sbando e un ex-campione afroamericano di rodei. Lei vive con la nonna, ha la madre il galera, il padre sparito da tempo: e quando per vendetta mette a soqquadro la casetta del suo vicino di casa, quest’ultimo le impone di rimettere ordine nell’abitazuone, dando così il via a un rapporto complesso tra i due. Un rapporto abbastanza asciutto, mai edulcorato, dove c’è ampio spazio anche per la figura del vicino di casa: un afroamericnao che è stato una star locale nei rodei, ma un po’ per un incidente e un po’ per l’età deve ora adattarsi a fare da aiutante durante le esibizioni, “salvando” i concorrenti disarcionati dalla furia dei tori, una specie di angelo custode esperto e coscienzioso, ma anche duro e laconico.