di Guido Reverdito
Di muri costruiti per dividere popoli altrimenti uniti o per difendere da fantomatiche invasioni di clandestini indesiderati si parla anche fin troppo. Non solo di quelli che la Storia stessa ha provveduto a smantellare dopo decenni di lacerazioni (vedi quello di Berlino), ma anche di quelli di recente costruzione (tra i tanti spicca quello che la destra fascistoide e xenofoba al potere in Ungheria ha eretto per proteggere i confini con la Croazia da temute emorragie di rifugiati siriani). E soprattutto dei molti che il sonno della ragione politica non smette mai di progettare. Primo fra tutti quello che Trump sta cercando di imporre al suo paese per mettere in pratica le farneticazioni della campagna elettorale e salvaguardare i confini meridionali del paese da presunti sciami di immigrati sudamericani la cui stragrande maggioranza sarebbe costituita da narcotrafficanti in libera uscita.
Ma di un muro che invece esiste eccome e che da più di quarant’anni lacera come uno sfregio uno dei più bei paradisi naturali del Mediterraneo non si parla quasi mai. Più che un muro è di fatto un cuscinetto divisorio chiamato poeticamente Linea Verde e creato dalle forze di pace dell’ONU all’indomani dell’invasione turca del nord di Cipro. Quando, il 20 luglio 1974, le truppe di Ankara, sfruttando il pretesto di un golpe militare di destra che sull’isola di Venere aveva rovesciato il governo democratico dell’arcivescovo Makarios, sbarcarono in massa per proteggere la minoritaria comunità turco-cipriota da potenziali rischi di pulizia etnica.
Quella che il governo turco dell’epoca spacciò come un’operazione protettiva era di fatto una vera occupazione militare, ironicamente poi destinata a trasformarsi in un vero e proprio esercizio di pulizia etnica. E non a caso venne ribadita con un secondo sbarco, avvenuto a un mese di distanza dal primo, al termine del quale la Turchia controllava il 40 per cento di Cipro non ostante la comunità turco-cipriota rappresentasse etnicamente solo il 22% della popolazione isolana.
Da quel lontano 1974 le cose non sono cambiate affatto. In aperto spregio di una serie di risoluzioni dell’ONU, la Turchia non si è infatti limitata a espellere quasi 200.000 greco-ciprioti dai territori occupati (causando uno dei più vergognosi esodi di massa del secondo ‘900 in Europa) e a insediare grandi quantità di coloni nelle terre requisite ai legittimi proprietari, ma è arrivata anche all’affronto politico di creare, nel 1983, l’autoproclamata Repubblica di Cipro del Nord. Paese fantasma che la sola Turchia ha riconosciuto a livello di diplomazia internazionale e che da allora galleggia come uno zombie geografico in una delle zone di maggiore criticità strategica dell’intero Mediterraneo orientale.
Della tragedia di questa divisione che ha fratturato in due l’isola di Cipro fomentando quattro decenni di odio tra comunità che per secoli avevano convissuto in perfetta armonia si parla in effetti pochissimo. A meno di risiedere sull’isola e di doversi confrontare giorno dopo giorno con una realtà di odio razziale, di sospetti reciproci, ma anche di surreali assurdità burocratiche e di tentativi di trattative bilaterali che da anni l’ONU sta cercando invano di portare avanti. Anche dopo l’entrata a far parte della UE dell’intera isola di Cipro, la cui parte settentrionale resta però politicamente estranea al contesto dell’unione.
Se di recente si è tornati a parlare della tragedia cipriota lo si deve soprattutto a un’opera prima premiata come miglior lungometraggio al Tribeca Film Festival e passata a metà aprile sugli schermi di Lecce nell’ambito del Festival del Cinema Europeo organizzato dalla città salentina. Torna a casa, Jimi! 10 cose da non fare quando perdi il tuo cane a Cipro (questo il bislacco titolo imposto dalla distribuzione italiana in barba al molto più pregnante originale Smuggling Hendrix, il cui senso risulterà più chiaro in seguito) è infatti l’esordio nel lungometraggio del regista greco-cipriota Marios Piperides, autore anche della brillante sceneggiatura che lo sorregge e arrivato finalmente al passo lungo dopo aver firmato due corti e un documentario.
Al centro di questa commedia trilingue (greco, turco e inglese) che affronta con spensierata levità argomenti grevi come quelli appena presentati c’è la figura di Yannis: musicista fallito in procinto di abbandonare per sempre Cipro alla volta dell’Olanda. Non solo per cercare colà miglior fortuna, ma anche per sfuggire a un duo di strozzini cui deve molti soldi nonché alle granfie della padrona di casa che esige mesi di pigione arretrata. Ma soprattutto per digerire la fine traumatica della relazione con la bella Kika che, stanca dei suoi fallimenti a catena, si è messa con un belloccio pieno di soldi e gli ha lasciato in eredità un bastardino di nome Jimi.
A tre giorni dalla data fatidica della partenza (che coincidono con la durata effettiva del film), e con una lunga lista di cose da fare, in un momento di distrazione Yannis perde di vista il cane. Che, nemmeno a dirlo, attraversa la terra di nessuno che l’ONU controlla e che fa da cuscinetto divisorio tra la Cipro greca e quella turca. Riportarlo a casa non sarebbe una tragedia. Se non fosse che Yannis (che ha la faccia sconsolata di un grande Adam Bousdoukos, ammirato in Soul Kitchen di Fatih Akin e protagonista anche di Golden Glove, il nuovo film del regista turco-tedesco presto nelle nostre sale), dopo essere andato per la prima volta in vita sua “dall’altra parte”, scopre suo malgrado che non è possibile introdurre su suolo comunitario cibo e animali dai territori occupati (ma non riconosciuti da alcun trattato internazionale e per questo trattati alla stregua di un Far West selvaggio e senza regole).
Da quel momento in poi per il povero Yannis – impossibilitato a riportare a casa Jimi in maniera legale e costretto a farlo ricorrendo a loschi espedienti – inizia un’odissea destinata non solo a compromettere in maniera definitiva la fuga in Olanda, ma anche a cambiargli completamente la vita portandolo a ripensare in blocco l’insieme di triti stereotipi e preconcetti sugli scomodi vicini e sulla tragedia del proprio paese con cui è cresciuto e vissuto.
La fuga di Jimi e gli affannati tentativi di riportarlo a casa (tutti ben oltre i margini di una presunta legalità) che il protagonista cerca di mettere in pratica sono un pretesto geniale che Piperides sfrutta per sbattere in faccia al pubblico una serie di ferite politiche sempre aperte che sanguinano su scenari di intolleranza e incomprensioni etniche e che la politica non sembra voler far troppo per vedere rimarginate una volta per tutte.
Mentre cerca un varco tra le macerie che costituiscono la terra di nessuno controllata dall’ONU (la cosiddetta Linea Verde qui mostrata per la prima volta in tutta la sua lancinante desolazione paesaggistica) per riportare Jimi nella parte greco-cipriota di Nicosia senza passare da uno dei check-point ufficiali, Yannis si imbatte casualmente nella casa in cui è nato e cresciuto e dalla quale la sua famiglia era stata cacciata quando il governo di Ankara aveva deciso di trasferire migliaia di coloni assegnando loro le abitazioni arbitrariamente confiscate.
Adesso in quell’umile casetta con giardino ci vive Hasan, che lì ci è ugualmente nato e cresciuto (in una sorta di esistenza speculare a quella di Yannis). E sarà proprio lui, dopo uno scontro iniziale tutto in inglese con chi gli sbatte in faccia la realtà dell’esproprio e dello sradicamento, a metterlo in contatto con Tuberk, un losco figuro specializzato in contrabbando illegale di ogni tipo di merce attraverso la Linea Verde il quale però non riuscirà nella missione quasi impossibile di riportare a casa Jimi (e di qui il senso letterale del titolo originale, con l’idea del contrabbando del cane Jimi, così chiamato in onore di Hendrix).
Quando Tuberk viene scoperto e il povero bastardino finisce in una fattoria persa nel nulla in attesa di essere soppresso, l’avventura in solitaria di Yannis si trasforma in un viaggio iniziatico a tre. Che parte all’insegna di inevitabili frizioni figlie di pregiudizi e preconcetti ma che approda a un finale conciliatorio con l’insolito terzetto di misfit che, dopo aver compreso di essere tutti vittime innocenti di quell’ignoranza reciproca destinata solo a generare odio razziale, riescono ad approdare nella Cipro europea, rassegnati però all’idea che il povero Jimi sia finito nella peggiore delle maniere (mentre l’ultima sequenza del film mostrerà che le cose non sono andate affatto così).
E non è un caso che proprio nel palazzo in cui si trova l’appartamento di Yannis e sul cui tetto i tre si sistemano come squatter senza fissa dimora e un domani tutto da interpretare vi sia un negozio di biancheria intima dal nome più che eloquente di No Borders. Nell’isola che ha visto nella creazione di un vergognoso confine interno l’origine di un odio senza fine chi – come il protagonista e i suoi due nuovi compagni di ventura divenuti tali da nemici che erano – sa andare aldilà del pregiudizio diffuso capisce che il solo confine accettabile dev’essere quello tra la forza della ragione e la cattiva coscienza.
Anche se visto da una prospettiva prettamente greco-cipriota, Torna a casa Jimi! veicola un messaggio globale che tiene conto delle problematiche di entrambe le comunità coinvolte in questa tragedia senza fine. E cioè che è sempre sbagliato lasciarsi trascinare dal pregiudizio, abbracciando invece l’idea che soltanto la cooperazione tra popoli divisi da scelte politiche prese troppo in alto possa creare vere zone franche all’interno delle quali comporre i dissidi di false ideologie e inseguire un comune sogno di rappacificazione.
E in questo è essenziale la presenza del personaggio di Hasan (interpretato da Fatih Al, magnifico attore turco poco noto dalle nostre parti) che Yannis sulle prime affronta a muso duro come colui che gli ha sottratto la casa natale appartenuta per generazioni alla propria famiglia, ma che poi capisce essere la vittima di un Sistema che ha trapiantato a Cipro migliaia di famiglie turche sradicandole dalle proprie terre d’origine e gravandole della responsabilità di essere oggetto dell’odio feroce di un’intera comunità di esuli forzati.
Il messaggio è più che chiaro: dove le Nazioni Unite e i governi hanno fallito per decenni sfibrandosi in inutili trattative senza sbocco, se a superare i confini tracciati sulle mappe col sangue di migliaia di morti ci riesce un bastardino spelacchiato (il cui nome è non a caso un tributo a quel Jimi Hendrix simbolo per antonomasia dei principi pacifisti portati in giro per il mondo dalla cultura hippie di fine anni ’60) unendo in un abbraccio nemmeno troppo virtuale chi dovrebbe odiarsi per principio precostituito, allora ce la possono fare anche i bipedi. Basta volerlo.