di Massimo Lechi.
Reduce dagli applausi alla sessantanovesima Berlinale, dove ha accompagnato in anteprima mondiale il suo atteso The Miracle of the Sargasso Sea, Syllas Tzoumerkas ha preso parte ai lavori del ventunesimo Thessaloniki Documentary Festival (1-10 marzo 2019) in qualità di giurato nella competizione dedicata alla realtà virtuale. Un ritorno a casa per il regista di Homeland (2010) e A Blast (2014), che proprio a Salonicco è nato quarantuno anni fa.
Al festival diretto da Orestis Andreadakis ed Elise Jalladeau, nell’ambito dell’Agora Doc Market, ha inoltre presentato il progetto di imminente realizzazione City and the City, ideato insieme all’attore e regista – e concittadino – Christos Passalis. Un lavoro di ampio respiro, commissionato dal Thessaloniki Film Festival e dalla Metropolitan Organization of Museums of Visual Arts of Thessaloniki, e prodotto da Maria Drandaki della Homemade Films, che ripercorrerà in sette cortometraggi (per un totale di settanta minuti) la storia della comunità ebraica della seconda città della Grecia. Un viaggio nel tempo, un’esplorazione delle possibilità del linguaggio cinematografico – in cui i confini tra fiction, documentario e video-arte verranno annullati – che mira a creare un ponte tra la Salonicco multiculturale spazzata via dal secondo conflitto mondiale e quella di oggi, specchio di un paese in crisi già raccontato da Tzoumerkas in tre film particolarmente controversi.
L’ultimo dei quali, The Miracle of the Sargasso Sea, torbido thriller metafisico girato a Missolungi e incentrato sullo spiazzante rapporto tra una poliziotta in disgrazia (Angeliki Papoulia, straordinaria) e una donna turbata da misteriose visioni (Youla Boudali), ha confermato il talento di questo cineasta ambizioso e inquieto, amante delle provocazioni intellettuali e delle immagini forti.
Con City and the City tu e Christos Passalis vi apprestate a raccontare un pezzo fondamentale della storia di Salonicco. Per voi, in più, si tratta di un ritorno nel luogo che avete lasciato anni fa per poter costruire le vostre carriere artistiche. In due parole, come descriveresti la tua città?
E’ una città con una forte tradizione. Il che significa che è molto ricca – perché c’è ricchezza nella cultura. Ma anche che è molto rigida. Perciò, Christos ed io, tornando qui per questo nuovo progetto, sappiamo bene che avremo a che fare con tanta ricchezza e con tanta rigidità. Per affrontare Salonicco ci vuole forza. E un certo distacco, come quello che abbiamo adesso.
Raramente Salonicco viene associata alla creatività, al fare. Certo, qui c’è il festival, però l’impressione è che in Grecia tutto nasca ad Atene, e che non ci sia possibilità di ritagliarsi un proprio spazio altrove.
In questo paese tutto è costruito intorno alla capitale. Infatti, per fare arte, educarci e trovare le persone giuste con cui lavorare, prima abbiamo dovuto lasciare Salonicco, poi siamo dovuti andare ad Atene e infine all’estero. Se fossimo rimasti qui, saremmo stati inghiottiti dalla città.
E poi c’è ancora la memoria del cinema di Angelopoulos, con le sue nebbie, con Bruno Ganz che cammina sul lungomare…
Salonicco era così negli anni Novanta, andiamo! No, questa è sì una città molto di destra e molto religiosa, ma è anche una città molto queer e molto anarchica. Ha tante contraddizioni interessanti.
Le sei legato?
Sono contento di tornare qui, è una parte di me che è sicuramente viva. Nessuno si allontana mai davvero da dove è cresciuto.
Persino da un punto di vista geografico tu non sei il tipico regista della Weird Wave ateniese…
Appartengo a una razza diversa! (ride) Mia madre è di Salonicco. Sono nato e ho fatto le superiori qui, ma gli anni nel mezzo, compresi quelli delle elementari, li ho vissuti nel Dodecaneso, in un’isola molto piccola. I miei sono insegnanti.
Hai coperto l’intera mappa del paese.
Sì, e sono anche un ragazzo di campagna.
Ma non fai parte della Weird Wave.
No, non ne faccio parte. Sono qualcosa di leggermente diverso.
Dunque ne riconosci l’esistenza.
E’ un’etichetta che viene utilizzata per definire un movimento, una tendenza. Deriva certamente da alcune caratteristiche artistiche comuni, ma è anche marketing. Io preferirei dire “Greek New Wave”, sinceramente. Il cinema greco contemporaneo va dal bizzarro più assoluto al naturalismo…
I film naturalisti tuttavia sono quelli che si vedono meno al di fuori della Grecia, nei festival internazionali.
In parte è vero… Per quanto mi riguarda, però, non ho mai avuto troppa consapevolezza del mio lavoro. E in un certo senso sono sempre stato percepito come un asterisco – ed è una cosa che mi piace. Ho il mio marchio.
Però c’è uno scambio continuo tra voi registi, sceneggiatori, attori e tecnici. Tu stesso hai usato attori che hanno lavorato regolarmente con Lanthimos o con la Tsangari, per esempio.
E’ una piccola industria, quella greca. Gente come Angeliki Papoulia o Christos la conosco da oltre quindici anni: ho recitato nei loro spettacoli e loro hanno recitato nei miei, e poi nei miei film. C’è una specie di cameratismo tra noi, perché abbiamo tutti dovuto combattere un sacco per realizzare questi nostri lavori. E c’è sicuramente uno scambio continuo, come dici tu, che però è artistico, a livello creativo: ha a che fare con i nostri legami, con i nostri desideri e con le nostre ambizioni. Le etichette servono a chi ci osserva da fuori.
Tu, poi, sei particolarmente difficile da classificare. A proposito di The Miracle of the Sargasso Sea ho letto definizioni interessanti: c’è chi ha parlato di un “Twin Peaks scottato dal sole”, chi ha tirato in ballo True Detective e la tragedia greca – e si potrebbe andare avanti a lungo. Il tuo è un film piuttosto destabilizzante, persino più di A Blast.
A Blast era molto più diretto. Picchiava duro, ma era costruito intorno a un solo personaggio. Era il viaggio purgatoriale di una donna in un contesto storico definito. The Miracle of the Sargasso Sea invece è una cosa completamente diversa. Innanzitutto è un film di genere. E oltre a essere un thriller, ad avere la spina dorsale di un thriller, è un film in cui affronto questioni per me nuove come la natura, la comunità e l’idea di paradiso. Inoltre, nonostante la storia sia inserita in una narrazione più classica, lo considero di gran lunga la mia opera più personale.
Da quale punto di vista?
Perché tutti i paradisi che ho rappresentato – quello naturale, quello sensuale e quello religioso – sono i miei paradisi.
Ti sei messo a nudo.
Sì, e mi sono sentito molto vulnerabile.
A Blast aveva una traiettoria molto più lineare, nonostante la struttura frammentatissima. Era una grande allegoria della crisi greca…
Era l’allegoria di una determinata generazione prigioniera della crisi greca, per essere più precisi. Comunque sì, era soprattutto quello.
Mentre invece The Miracle of the Sargasso Sea sembra cambiare forma e identità a ogni svolta narrativa.
E’ un film molto sovversivo e molto sconcertante. Ha un’identità mutevole: ogni volta che pensi sia una cosa, cambia e ne diventa un’altra. Penso che questo sia dovuto alla palude in cui è ambientato e al modo in cui i personaggi sono persi tra concetti contraddittorii. Io non ho l’ambizione di presentare dei film così concreti e definiti da poter essere classificati facilmente. Preferisco film che risultino più “giocosi”, se così posso dire, in termini di esperienza visiva.
Le paludi di Missolungi sembrano rimandare al grande pantano, al limbo in cui si trova la Grecia contemporanea.
I miei tre film costituiscono una sorta di trittico basato sull’esperienza della crisi da parte della mia generazione. In Homeland c’era l’inferno di bugie che, esplodendo, ha portato alla distruzione della Grecia. A Blast copre la seconda parte della crisi, il periodo dell’emergenza. In The Miracle of the Sargasso Sea siamo invece dopo l’emergenza: ogni cosa è ferma, si procede senza direzione. Subito dopo il collasso economico c’era l’impressione che tutto fosse paludoso, che tutto si fosse tramutato in una palude. Per raccontare una simile sensazione, non c’era immagine migliore dell’anguilla: una sorta di vecchio dinosauro che riceve un inaspettato richiamo e si muove. E questa è la storia del film: due donne che compiono un violento viaggio nel crimine per cambiare se stesse, vedersi dal di fuori e da lì andare finalmente avanti. Loro non sanno da dove arriverà la chiamata, ma nel momento in cui la chiamata arriva niente può fermarle. Un’altra cosa interessante poi, nel trittico, è la politica, che è centrale nel primo film, funge da acceleratore nel secondo, mentre nel terzo resta sullo sfondo… L’ho fatta annegare di film in film, sempre di più.
Sbarazzandoti della politica, paradossalmente, hai potuto mirare ancora più in alto.
Sì, e ho potuto concentrarmi su altre cose. Avevo bisogno di evolvere, personalmente, come artista.
Ma hai continuato a mettere al centro donne. E’ una costante delle storie che hai scritto con la tua co-sceneggiatrice Youla Boudali.
Il genere non è così importante per me, tanto è vero che spesso sia i miei personaggi maschili sia quelli femminili sono sessualmente fluidi… Molti tra coloro che hanno visto The Miracle of the Sargasso Sea hanno paragonato Angeliki a Gene Hackman o a Nicolas Cage. Questo per me è molto divertente, e dice tanto sugli stereotipi che abbiamo in testa.
Raccontare una figura femminile ti dà più libertà?
Tutti e tre i miei film sono incentrati su donne, però la ragione è inconscia. Mi piace scrivere personaggi femminili, certo, ma in futuro potrebbe cambiare: nel prossimo magari ci saranno dei protagonisti uomini. E’ una cosa che è venuta da sé, anche se poi mi è piaciuto giocarci.
Resta il carattere contraddittorio dei tuoi personaggi, che evolvono in maniera spesso del tutto imprevedibile.
Be’, sono personaggi che hanno parecchie sfaccettature. Rita, ad esempio, è una donna molto povera e molto religiosa che finisce prigioniera di una setta che la sfrutta sessualmente. Poi c’è Elisabeth, una poliziotta di destra che ha un forte senso di giustizia ma allo stesso tempo è fonte di scandalo per la comunità in cui vive… Le loro sono esperienza estremamente contraddittorie. Ma del resto, per me, nella vita, le persone più interessanti sono proprio quelle che hanno in sé questo tipo di contrasti. E’ loro che mi interessa raccontare.
E’ una scelta rischiosa.
Decisamente. Devi riuscire a mettere in luce tutte le possibili sfumature di grigio, e in modi sempre diversi. Però, da un punto di vista sia letterario che cinematografico, penso che queste crepe nei personaggi siano davvero ciò su cui vale la pena lavorare.