di Aldo Viganò.
Sarà perché ormai da molti anni non frequento più i grandi festival generalisti, ma anche dopo la visione di questa ultima sua pellicola, che gli esperti testimoniano essere una sintesi tematica ed estetica di tutta la sua filmografia, non riesco a condividere gli entusiasmi critici di coloro che tendono a considerare il quasi cinquantenne Jia Zangke uno dei maggiori registi contemporanei, non solo della Cina.
Certo “I figli del Fiume Giallo” si presenta subito, per tono e per ambizione, come un’opera che punta in alto, nel suo sforzo di coniugare il cinema di genere (l’ambientazione è quella di un “gangster movie” all’orientale) con la troppo veloce evoluzione storica ed economica della società cinese contemporanea (raccontata soprattutto con efficaci immagini di treni in corsa e con un po’ ripetitive riprese in campo lungo dall’alto); ma a scapito del film si evidenziano sin dall’inizio almeno due limiti di fondo.
Il primo dovuto alla lentezza costante dei suoi ritmi narrativi e l’altro derivante dalla centralità assoluta della protagonista (la pur ottima Zhao Tao, moglie del regista), spinta sino al punto di offuscare, minimizzandone l’importanza, la funzionalità drammatica degli altri numerosi personaggi di contorno. Limiti questi che a lungo andare finiscono col suscitare un inevitabile senso di noia.
Il racconto si dipana secondo la classica scansione occidentale in tre atti: datati rispettivamente 2001, 2006 e 2018.
Nel primo atto, la protagonista, Zhao Qiao, è una ex ballerina diventata l’amante di Bin: un boss di provincia, sempre alle prese con bande giovanili rivali. Ed è durante uno di questi attacchi con sbarre di ferro e pugni che Zhao per difendere il suo uomo spara in alto con una vietatissima pistola e l’infrazione alla legge (di un paese in cui rompere le ossa di un avversario è meno grave d’intimidirlo con un’arma da fuoco), le costa cinque anni di prigione.
Nel secondo atto, quindi, la fedele Zhao viene rimessa in libertà in una Cina ormai profondamente cambiata. E scopre con sgomento che anche il suo compagno ormai si è fatto una nuova vita. Orgogliosa, non le resta pertanto che cercare la via del ritorno a casa, ma sulla sua strada trova un paese irriconoscibile, abitato solo da persone che si arrangiano o conducono un’esistenza da piccoli emarginati.
Nel 2018, infine, Zaho ritrova il suo Bin (la Cina è grande, ma nel melodramma le distanze logistiche tendono inevitabilmente a sparire), il quale però è ormai ridotto a un rottame a causa di un ictus che gli paralizza la metà del corpo. I due tornano insieme nel villaggio che aveva visto il loro fulgore. Zaho ora funge da angelo custode del sempre amato Bin, ma ormai il mondo è profondamente cambiato. Nulla può inevitabilmente tornare come prima.
Tutto questo fa di “I figli del Fiume Giallo” un “mélo” in tre tempi coniugato sullo sfondo di una società in una trasformazione tanto veloce che i singoli non sono in grado di mantenerne il passo. Sortendone una storia d’amore inesorabilmente votata al fallimento e un film che sembra fatto apposta per un pubblico da festival o per spettatori disposti ad adeguarsi ai suoi ritmi.
Quello di Jia Zhangke risulta così un modo di fare del cinema, dal sapore inevitabilmente un po’ esotico e drammaturgicamente cadenzato secondo le modalità culturali e linguistiche di una società che insieme ci affascina nella sua evoluzione a noi aliena, ma anche ci annoia per il suo modo inevitabilmente lontano ( e a tratti poco comprensibile) di raccontarsi.
I FIGLI DEL FIUME GIALLO
(“Jiānghú érmü”, Cina e Francia, 2018) regia e sceneggiatura: Jia Zhangke – fotografia: Éric Gautier – musica: Lim Giong – montaggio: Matthieu Laclau. Interpreti e personaggi: Zhao Tao (Zhao Qiao), Liao Fan (Guo Bin), Xu Zheng (uomo sul treno), Casper Liang (Lin Jiayan), Diao Yinan (Lin Jiadong), Zhang Yibai e Zhang Yi (uomini al ristorante di Fengjie), Ding Jiali (donna sulla barca), Dong Zilian (poliziotto a Fengjie). distribuzione: Cinema – durata: due ore e 16 minuti