“Dolor y gloria” di Pedro Almodòvar

di Aldo Viganò.

Era da più di tre anni, dal modestissimo “Julieta” (2016), che non si sentiva più parlare di Pedro Almodòvar. Ora “Dolor y gloria” ce ne dà la motivazione: avvicinandosi ormai ai settant’anni,  il discusso e discutibile regista spagnolo ha attraversato un lungo periodo di crisi.

Una crisi insieme fisica e psicologica. Una crisi tanto più dolorosa in quanto chiamava in causa tutta la sua esistenza. Una crisi che lo costrinse a far ricorso a operazioni alla spina dorsale e a micidiali cocktails di medicine: forse anche, dando credito alla sua confessione cinematografica, all’uso di droghe. Una crisi fatta di lunghi stati depressivi e soprattutto di una profonda mancanza d’ispirazione, caratterizzata da una incapacità creativa, della quale “Dolor y gloria” si propone come un tentativo estremo di rigenerazione.

Quello che ne sortisce è un film “malato” e autoreferenziale. Un film che cita Nanni Moretti (l’episodio del malessere fisico di “Caro diario”) e ammicca a Federico Fellini (“Otto e mezzo”), ma che infine riesce solo a essere la versione melanconica di tutto il suo cinema precedente.

Come in un album fotografico, ci sono tutti i temi che attraversano la filmografia di Amodòvar. Il legame morboso con la madre, identificata qui, da giovane, con Penelope Cruz e, da anziana, con l’attrice di teatro Julieta Serrano. La scoperta della propria omosessualità, nonché della fascinazione per l’arte, spiando il corpo nudo di un bel muratore e vedendolo all’opera nella sua passione naïf per la pittura. Ma anche il senso del tempo che passa suggerito dall’interessato incontro con un attore (Asier Etxeandia ) con il quale aveva trent’anni prima litigato e, soprattutto, dall’amarcord rivissuto attraverso la visita di un suo mai dimenticato amante (Leonardo Sbaraglia). E, infine, c’è anche, più detto che autenticamente vissuto, il suo amore per cinema, inteso soprattutto quale sognata, e dolorosamente praticata,  àncora di salvezza esistenziale.

“Dolor y gloria” dichiara di essere  un film esplicitamente autobiografico. Come testimonia anche il  narcisistico sogno del suo autore di identificarsi con lo sguardo malinconico del suo barbuto alter ego Antonio Banderas. Ma resta un’opera molto lontana dalla gioiosa vitalità, spinta sino al limite del dilettantismo, delle sue più fortunate pellicole precedenti.

Nei fotogrammi di questo ultimo film di Almodòvar dominano, infatti, i toni cupi di un senile sentore di morte, che non riescono però né a riscattare, né a sublimare sotto il compiuto segno dell’arte,  la permanente acquiescenza a un compiaciuto sentimento di sé che finisce con l’appesantire, e in fin dei conti anche falsifica, la conclamata aspirazione alla completa sincerità che il film non cessa mai di dichiarare.

Firmando un’opera che non ha altro tessuto narrativo oltre a quello autobiografico, Pedro Almodòvar dimostra ancora una volta di essere un regista fondamentalmente condannato a rimanere al di sotto delle proprie ambizioni.

Siano queste declinate sotto il segno dell’allegria giovanile o  enunciate dal vuoto che hanno aperto nella sua esistenza gli anni che passano, egli si evidenzia, infatti, dopo più di venti lungometraggi e di un pugno di corti, ancora sempre lo stesso: un regista dal talento ruspante, ma di fatto incapace di guardare il mondo al di là del proprio ombelico. Cioè, di assumere un punto di vista sulla realtà capace di allargarsi oltre la tentazione di ridurre tutti i temi della propria ispirazione oltre la sola proiezione di se stesso.

Almodòvar è, di fatto, un regista che, film dopo film, parla solo di se stesso. E questo atteggiamento egotistico, lungi dal giovare all’orizzonte artistico del suo cinema, ne relega ogni film entro i confini di un’autoreferenzialità che rende difficile allo spettatore partecipare in modo autentico ai suoi proclamati grandi sentimenti; perché, come in questo caso, pur evocando la lacerante sofferenza provocata dalle ferite del corpo e dell’anima, essi riescono a concretizzarsi solo in un esistenza che finisce col contemplare se stessa. E a lungo andare tutto ciò non può che suscitare un uggioso senso noia e una reazione di disinteresse.

  

DOLOR Y GLORIA

(“Dolor y gloria”, Spagna 2019)  regia, soggetto e sceneggiatura: Pedro Almodovar – fotografia: José Luis Alcame – musica: Alberto Iglesias – scenografia: Antxón Gómez – costumi: Paola Torres – montaggio: Teresa Font. interpreti e personaggi: Antonio Banderas (Salvador Mallo), Penélope Cruz (Jacinta da giovane), Asier Etxeandia (Alberto Crespo), Leonardo Sbaraglia (Federico), Nora Navas (Mercedes), Asier Flores (Salvador bambino), Cecilia Roth (Zulema), Raul Arévalo (padre), Julieta Serrano (Jacinta anziana), Pedro Casablanc (dott. Galindo), Susi Scanchez (Beata). distribuzione: Warner Bros. – durata: un’ora e 53 minuti

 

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