di Aldo Viganò.
Presentato all’ultimo Festival di Cannes fuori concorso, perché il suo regista è considerato “persona non grata”, “La casa di Jack” è un film sgradevole e compiaciuto nella sua mancanza di valori etici. Un’opera in perfetto stile von Trier, cioè: capace di essere insieme didascalico e provocatorio, presuntuoso ma con dichiarata vocazione pop. Una pellicola che mescola all’interno del proprio esibito estetismo, immagini ora raffinate e ora grossolane con citazioni colte tendenti a ostentare le proprie radici culturali, spiazzando continuamente lo spettatore.
Nelle intenzioni del suo autore, quella vissuta e raccontata (anche con vice fuori campo) da Matt Dillon aspira ad essere “la divina commedia” (in cinque “incidenti”) di uno spietato serial killer alla ricerca della perfezione “artistica”, idealizzata nel progetto della costruzione di una casa che infine il protagonista, dopo tanti fallimenti, realizzerà mettendo insieme i cadaveri congelati della sue più di sessanta vittime.
Ma la “commedia” ovviamente non si esaurisce in questa macabra narrazione. Perché Dillon, novello Dante Alighieri, incontrerà infine il suo Virgilio (Bruno Ganz) e da questo sarà condotto in un inferno incandescente, precipitando nel quale espierà le colpe di un’esistenza criminale, vissuta in modo ossessivo e compulsivo, sempre alla ricerca del capolavoro e della perfezione simbolicamente rappresentata da alcune icone ricorrenti sullo schermo: da Glenn Gould che suona al piano le “Variazioni Goldberg” all’evocazione di alcuni dei più sanguinari dittatori del Novecento, passando attraverso l’effimera opera di Albert Speer, l’architetto di Hitler.
Anche solo condensate in queste poche righe, le più di due ore e mezza di “La casa di Jack” (nell’originale, il titolo deriva da una filastrocca infantile in voga nei paesi nordici) rivela tutta la sua spiazzante presunzione, la quale viene cadenzata come se si trattasse di una tragedia teatrale dei tempi che furono, divisa in cinque atti (qui chiamati “incidenti”). Una tragedia che, essendo raccontata in prima persona dal protagonista, si permette anche il lusso di indulgere senza remore sugli aspetti più cruenti delle sue imprese.
Ecco, quindi, il volto di una petulante autostoppista fracassato a colpi di cric. O il doppio strangolamento di un’avida pensionata il cui corpo viene poi ridotto a un ammasso sanguinolento dal traino sull’asfalto. Oppure, il truce tirassegno su una famigliola (la madre con due bambini) invitata a una partita di caccia. Ma anche i poderosi seni di una povera ragazza tagliati con un coltello e trasformati (almeno uno di questi) in un portamonete. Sino al tentativo di replicare con un pugno di malcapitati l’esperimento nazista di risparmiare pallottole facendo attraversare con un solo colpo il cranio di quante più vittime possibili.
Visualizzato in dettagliate e a loro modo eleganti immagini tutte a fuoco, quello di von Trier ha la consistenza narrativa di un horror di serie B, con i corpi dei cadaveri che si accumulano nella segreta cella frigorifera del serial killer; anche se poi, come si diceva, il regista non esita a dichiarare la propria ambizione di trasformare tutto questo in una allegoria della propria mai celata ricerca della perfezione artistica. E proprio in quest’ultima direzione, “La casa di Jack” testimonia che von Trier non ha ormai più alcun freno. Sino al punto d’identificarsi completamente con la mente malata del suo protagonista e di perdere di vista l’umanità che è in lui e soprattutto nelle sue vittime. Ma anche di provocare lo spettatore con immagini pur tagliate dall’edizione italiana (con il suo consenso e con esiti che non si ha certo voglia di verificare tornando a vedere il film nell’edizione originale che si dice essere in circolazione).
Il risultato di tutto questo, ultima (per ora) tappa di una filmografia fondata sulla provocazione, è un film connotato da un intellettualismo beffardo. Tanto più sgradevole perché ostentato da un regista che evidentemente sa bene che cosa è il cinema, anche se poi ne usa il linguaggio più per costruire un narcisistico monumento a se stesso che per utilizzarlo quale strumento d’indagine e di conoscenza: dell’umanità e del mondo.
LA CASA DI JACK
(“The House That Jack Built”, Danimarca-Svezia-Francia-Germania, 2018). regia e sceneggiatura: Lars von Trier – soggetto: Jenie Hallund e Lars von Trier – fotografia:Manuel Alberto Claro – scenografia: Simone Grau Roney – costumi: Manon Rasmussen – montaggio: Molly Marlene Stensgaard. interpreti e personaggi: Matt Dillon (Jack), Bruno Ganz (Verge), Uma Thurman (donna del cric), Siobhan Fallon Hogan (Claire Miller), Sofie Gråbøl (donna), Riley Keough (Simple), Jeremy Davies (Al), Jack McKenzie (Sonny), Mathias Hielman (Glenn), Ed Speleers (Ed), Marijana Jankovic (Kelly Miller), Carina Skenhede (Susan Hanson), Rocco Day (Grumpy), Cohen Day (George), David Bailie (S. P.). distribuzione: Videa – durata: due ore e 35 minuti