René Clair era uno dei registi prediletti in assoluto dalla cinefilia pre-Nouvelle Vague, l’autore immancabile in ogni rassegna di Film Club o cineforum: e Il silenzio è d’oro (1947) costituiva in questa prospettiva il suo film per eccellenza, non solo per le qualità intrinseche, ma perché rifletteva in modo anche un po’ nostalgico sul cinema stesso. E perché, ricollegandosi al cinematografo delle origini, permetteva a Clair di esaltare la sua idea di un necessario ritorno alle radici “primitive” del fare cinema, occultate dalle pretese del film d’arte.
A curare una monografia per la collana di Gremese “I migliori film della nostra vita” è adesso Giulio D’Amicone, fedelissimo di Clair, cui aveva già dedicato uno studio (René Clair, il sorriso al cinema) in cui lo definiva “il più grande regista della storia del cinema”, perché tutti i suoi film “respirano cinema dalla prima all’ultima inquadratura: la sua opera omnia compone un quadro che non si saprebbe immaginare più esauriente delle possibilità offerte dal linguaggio filmico”.
Il libriccino su Il silenzio è d’oro (ed.Gremese, Roma 2019, 126 pagine, 16 euro) segue i criteri della collana, con un testo stringato, moltissime illustrazioni, un’introduzione (e un epilogo) in cui l’autore fissa i punti salienti dell’opera e del suo autore. In questo caso si tratta di Parigi, del tono malinconico che pervade anche le scene più festose, dell’adattamento al protagonista Maurice Chevalier, scelto in sostituzione del previsto Raimu a causa della morte improvvisa di quest’ultimo (e per Chevalier si trattava del primo film in cui accettava un ruolo da “vecchio”, anziché da giovane seduttore). E poi naturalmente il senso di quest’omaggio al cinema muto in un film molto parlato e ricco di musica, oltre alla consueta questione se è davvero questo il capolavoro di Clair. Su tale aspetto, l’autore non ha dubbi: “da molto tempo sono convinto che Il silenzio è d’oro sia il film più bello dell’intera storia del cinema”.
La struttura del libro permette di seguire il film sequenza per sequenza, commentando di volta in volta le soluzioni linguistiche ma anche le evoluzioni narrative. Ma uno dei pregi non secondari del libro sta nella ricchissima scelta di citazioni di Clair. A cominciare dalla scelta del titolo, deovuto al fatto che il lieto fine era inizialmente determinato dal silenzio dei personaggi. Oppure dalle considerazioni sui dialoghi del film, sempre molto attuali: “Leggendoli sembra che manchino di vivacità. Sono d’accordo. La loro discrezione non è involontaria: non sono stati fatti per essere letti ma per essere uditi nel corso di una visione, cioè completati e sostenuti dalla recitazione e dalla tecnica di regia. Un dialogo brillante e troppo ‘scritto’ può sembrare artificiale se proviene dallo schermo”. E ancora: “E’ infinitamente più efficace e più meritorio far comprendere al pubblico ciò che pensa un personaggio tramite l’azione, la recitazione, l’artmosfera che lo circonda, piuttosto che ricorrere a una voce che spiega il significato delle immagini…”.
Ma una delle citazioni più attuali risale al 1924, quando Clair era ancora nel pieno della sua avventura avanguardistica e scrive: “Non si può negare che il cinematografo sia stato creato per registrare il movimento, e tuttavia pare che ce ne siamo troppo presto dimenticati (…) L’errore è stato di stabilire troppo presto che era un’arte. Se fosse stato trattato soltanto come un’industria, l’arte stessa sarebbe migliorata”.