di Renato Venturelli.
Melò e fotoromanzo, Otello, gelosie e razzismi nell’Italia dei primi anni ’50. La Cineteca D.W.Griffith ha ritrovato e riproposto a Roma Il peccato di Anna (1953), un film di Camillo Mastrocinque da tempo ignorato e ormai quasi dimenticato, ma che ha svariati motivi di interesse.
Innanzitutto per il fatto insolito che parte da un soggetto scritto dalla stessa attrice protagonista, Anna Vita, star 26enne del fotoromanzo italiano del dopoguerra, famosa anche per essere apparsa nel documentario di Antonioni L’amorosa menzogna e per aver rifiutato Lo sceicco bianco di Fellini, rivendicando la dignità del mondo da cui proveniva. E dopo essere apparsa in qualche altro film, tra cui Totò a colori e La vendetta della zingara (tratto proprio da un fotoromanzo di successo), Anna Vita conferma qui di avere una personalità tutt’altro che banale, se è vero quanto le viene accreditato nei titoli di testa.
Il secondo motivo di curiosità film sta infatti proprio nel suo soggetto, che affronta un tema poco frequentato dall’Italia di allora, anche se eminentemente melodrammatico, come quello del rapporto tra una ragazza italiana e un afroamericano. Lui è un affermato attore newyorkese (Ben E.Johnson) che viene in Italia per interpretare Otello, lei è la Desdemona che lo affianca sulla scena, e tra i due si sviluppa presto un’attrazione amorosa che ingelosisce il tutore della ragazza (Paul Muller) fino a sprofondare in torbide rivelazioni sul passato, discese nei locali dei bassifondi, omicidi e tentati omicidi.
Il tema affrontato si presta a qualche dialogo pesantemente allusivo. Lo stesso protagonista sottolinea “la facoltà per il negro di entrare in furore, sacro o d’arte o di sangue. Tutte le possibilità del furore, le grandi e le basse”. E poi, dopo che il tutore razzista ha buttato lì un “Vedete, sta tornando nella foresta”, Johnson ricorda durante una romantica passeggiata notturna: “Sono nato a New York. Da bambino giocavo nelle strade, dietro ai grattacieli. Non avevo mai visto un albero fino a 14 anni, soltanto cemento. Eppure quando entro in un bosco mi sento come a casa mia“.
Più in generale, la struttura del film si rifà al melodramma noir dell’epoca, con un incipit brusco in cui l’attore nero scappa dalla polizia, sale sulle impalcature di una chiesa e si rifugia dietro una statua sul tetto: a quel punto, comincia il lungo flashback che rievoca la vicenda che l’ha spinto fin lì, un triangolo per certi versi speculare rispetto a quello dell’Otello portato in scena. Mastrocinque la racconterà con una certa eleganza visiva, e nella sequenza in cui Paul Muller strappa una preziosa confessione a un musicista jazz afroamericano, la figura dell’implacabile tutore si staglia contro una lunga finestra con effetti memori di certe soluzioni “espressioniste” (non a caso, il musicista ubriaco lo vede come un Giudice). E siccome il film è schierato contro il razzismo, ma la bianca e il nero si sfiorano appena, la relazione tra i due viene più volte rappresentata attraverso le loro ombre.
Infine, un dettaglio letterario: il personaggio del musicista è interpretato da William Demby, scrittore americano che viveva a Roma e aveva già pubblicato uno dei suoi romanzi più importanti, Beetlecreek.