di Renato Venturelli.
Tra i film più attesi della sezione “After Hours” di Torino spicca l’ultimo horror di Pascal Laugier, il regista che con “Martyrs” ha realizzato dieci anni fa uno dei film-incubo più feroci e controversi del nuovo millennio, con scene di violenza, crudeltà e sofferenza fisica spinte fino ai limiti del sostenibile.
“Ghostland” è già uscito in Francia in primavera, dove ha ottenuto la consueta dose di opposizione di una parte della critica, ma è stato pienamente sostenuto da un arco di riviste che va da “Positif” a “L’Ecran Fantastique”, che gli ha dedicato un ampio dossier. In patria ha poi fatto molto parlare anche il coinvolgimento di Mylène Farmer, la cantante per cui Laugier aveva già realizzato il video della canzone City of Love e che adesso compare in uno dei ruoli principali del film, quello della madre. E una coda polemica c’è stata per l’incidente di set occorso a un’altra delle protagoniste, l’attrice Taylor Hickson, che ha denunciato la produzione per le ferite riportate al volto.
Rispetto alla forza sconvolgente di “Martyrs”, qui Laugier parte da una situazione molto più canonica, con una madre che va ad abitare insieme alle due figlie in una vecchia casa di campagna ereditata dalla zia morta. Ma l’edificio è zeppo di bambole inquietanti collezionate dalla defunta: e appena arrivano, le nuove inquiline subiscono immediatamente l’irruzione di due mostruosi sconosciuti, che cominciano a massacrarle. Anni dopo, una delle ragazze sarà diventata una famosa scrittrice horror e viene richiamata in quella casa dove ancora vivono la madre e l’altra sorella, psichicamente segnata per sempre da quell’esperienza traumatica.
La scelta di Laugier è però quella di raccontare fin dall’inizio la sua storia con inquadrature particolarmente ravvicinate, stacchi bruschi di montaggio, effetti sonori aggressivi, immagini che non permettono quasi mai di avere una percezione chiara e distinta della scena. Dopo il breve prologo, lo spettatore si ritrova così proiettato in un incubo soggettivo, dove si mescolano in modo a volte inestricabile la realtà, il sogno, l’allucinazione, la rielaborazione artistica. E tutto sembra avvenire nel nome di Lovecraft, più volte evocato e a un certo punto addirittura coinvolto in prima persona: in questo modo, il racconto inizialmente convenzionale diventa una sorta di palinsesto da cui affiorano singole immagini angosciose o sconvolgenti, in un viaggio nelle radici subconsce della creazione horror.
Nell’insieme, un film molto meno provocatore rispetto all’estremismo di “Martyrs”, ma che conferma Laugier come regista sempre personale, che rifiuta di accettare la deriva horror a base di ironie e serialità, sostenitore di un’idea alta del genere: e che anche all’uscita di “Ghostland” ha ribadito come non gli interessi il cinema fantastico nell’ambito di una cultura ironica del “nanar”, ma di averlo sempre preso molto sul serio, da James Whale a Polanski, fino a quest’esplicito omaggio alla poetica lovecraftiana.