di Renato Venturelli.
Su Colette era già stato realizzato nel 1992 il biopic “Becoming Colette” di Danny Huston, dove la scrittrice era interpretata da Mathilda May, il marito Willy da un debordante Klaus Maria Brandauer e Virginia Madsen era una scatenata Polaire. Il film puntava anche sugli aspetti più piccanti del personaggio, ma restava nell’ambito di un lussuoso e inerte sceneggiatone.
Alla stessa categoria appartiene in fondo anche questa nuova versione, passata a Torino nella sezione Festa mobile e più adattata agli anni del metoo: il fatto poi che una vicenda ambientata nella Parigi della Belle Epoque sia interamente recitata in inglese è in fondo coerente con lo spirito dell’operazione, volta a impossessarsi del personaggio di Colette per farne un santino di ideologie in buona parte anglo-americane.
Tutto prende il via nel 1893, quando lo scrittore Willy perde la testa per la ventenne campagnola Sidonie-Gabrielle Colette (Keira Knightley), diventa suo amante, la sposa e la porta con sé nel bel mondo dei salotti parigini. La ragazza fatica inizialmente ad ambientarsi, lui passa spudoratamente il tempo con la folla di altre amanti, e quando nella sua attività letteraria si ritrova a corto di testi invita la moglie a trasformare in un libro i suoi ricordi giovanili. Nasce così “Claudine a scuola”, primo libro di Colette, che però Willy pubblica a proprio nome dopo avervi apportato una serie di smaliziate correzioni.
Il grande successo lo spingerà a chiedere alla moglie di scrivere altre avventure di Claudine, ma il loro rapporto è destinato a entrare in crisi nel giro di qualche anno, sia per le continue avventure extraconiugali di Willy, sia perché Colette comincia ad avere a poco a poco una vita sempre più indipendente, intrecciando rapporti erotici con altre donne e calcando addirittura le scene in una serie di tournée teatrali.
Interessato soprattutto all’esemplare percorso di indipendenza femminile, il film culmina nella scena in cui finalmente Colette si libera del marito, firma i libri col proprio nome e si produce in un lunghissimo pistolotto. Peccato che invece il film sia meno interessato all’altro percorso liberatorio di Colette, quello che la porta ad esibirsi non più giovanissima sui palcoscenici, in una piena affermazione di sé e del proprio corpo. E peccato che, per enfatizzare l’assunto principale, si finisca per trascurare l’impresa editorial-letteraria di Willy, che firmava a proprio nome i libri della moglie nell’ambito di un’attività nel suo insieme improntata a uno spudorato impiego di “negri” al proprio servizio: cosa che si può intuire a un certo punto anche nel film, dove si vede uno scrittore famoso come Marcel Schwob campare da giovane scrivendo per “l’impresa” Willy, firma dietro cui si nascondevano vari autori secondo un’usanza tutt’altro che rara.
Tra le astuzie del film c’è anche quella di occultare quasi completamente la folta presenza femminile nella letteratura francese a cavallo del secolo, in modo da far risaltare come unico il percorso di Colette evitando di nominare le varie Rachilde, Anna de Noailles, Judith Gautier, Gyp, Renee Vivien, Lucille Delarue-Mardrus, Marie Dauguet e tutte le altre autrici ben accolte nella società letteraria dell’epoca. Insomma, l’affresco d’epoca è condotto con una certa spregiudicatezza, nonostante il taglio illustrativo da sceneggiato: che è diretto da Wash Westmoreland, già autore di “Still Alice” con Julianne Moore, oltre che di film queer e di gay porno firmati Wash West.