di Aldo Viganò.
Arriva dal paese del freddo, caratterizzato però da una grande quantità di sorgenti termali riscaldate dai gayser, questo curioso film che ha come protagoniste due eccentriche sorelle gemelle (entrambe interpretate dalla brava Halldóra Geirhardosdóttir): una che insegna canto e pratica l’ecoterrorismo contro le centrali siderurgiche del paese e l’altra che gestisce una palestra e sogna di ritirarsi in contemplazione in un monastero tibetano. Ciò che le unisce è la lotta contro l’idea stessa di modernità, oltre che il desiderio di compensare la mancata maternità con due parallele domande di adozione.
In fin dei conti il film firmato da Benedikt Erlingsson è tutto qui dal punto di vista narrativo, concentrato com’è sul ribelle contrasto tra la vocazione meditativa della sorella Asa e sulle imprese terroriste della sua gemella Halla che, armata di arco e freccia s’ingegna dapprima a interrompere le forniture di corrente elettrica alle poche industrie del luogo. Ma poi non esita neppure di far saltare con l’esplosivo qualche traliccio. Per questo viene arrestata. Anche se il provvidenziale scambio di persona in carcere con Asa, le permetterà infine di andare in Ucraina, dove c’è una bambina orfana che l’attende, assegnatale dalla lenta ma efficiente burocrazia islandese.
Ma il fascino di “La donna elettrica” (in originale “La donna in guerra”) sta soprattutto nella sua messa in scena, punteggiata dalla ricorrente apparizione, con funzione insieme estraniante e di commento, di una orchestrina musicale e da un trio di ragazze canterine. Certo, quello di Erlingsson resta un piccolo film; realizzato però con molta delicatezza e sensibilità dal regista islandese (già candidato all’Oscar per il suo precedente “Storie di cavalli e di uomini”), il quale dà il meglio di sé nella descrizione dello spazio e nel rapporto drammatico tra la protagonista e il paesaggio.
Halla si aggira in quella terra brulla, riarsa dal momentaneo ritiro dei ghiacciai, come un animale in caccia di preda, ma è a sua volta braccata dalla polizia. La sua meta è fermare il progresso, per restituire serenità e bellezza al territorio. Strada facendo, trova anche degli alleati (un funzionario dell’amministrazione pubblica e un anziano pastore di pecore), ma di fatto resta un animale solitario che lotta per restituire alla terra quella pace che lei stessa sogna di raggiungere e che il suo regista simboleggia nel continuo rifugiarsi di Halla nella natura per sfuggire allo sguardo degli elicotteri o dei droni alzatisi in volo alla sua ricerca. Sia questa natura rappresentata da un branco di pecore o da un anfratto del terreno o da una zolla di muschio sotto la quale nascondersi.
È questa la parte decisamente più originale e più riuscita di un film che solo nella sue ultime sequenze si apre con vocazione simbolica al viaggio di Halla in Ucraina per raggiungere la bambina che vuole adottare, dando origine dando così origine a una un po’ermetica, ma pur bella immagine finale nella quale si vedono le due donne, la madre e la bambina, costrette dall’alluvione a scendere dall’autobus che dovrebbe portarle all’aeroporto, impegnate a guadare una distesa d’acqua nella quale sono immerse sino alla vita.
Anche se non tutto è chiaro nella pur evidente metafora suggerita da questa parte conclusiva del film, resta il fatto che “La donna elettrica” rimane un’opera curiosa e interessante, ben girata e contrassegnata da un autentico e sempre più raro piacere di fare del cinema.
LA DONNA ELETTRICA
(“Kona fer í stríð”, Islanda – Francia – Ucraina, 2018) regia: Benedikt Erlingsson – sceneggiatura: Olafur Egilsson e Benedikt Erlingsson – fotografia: Bergsteinn Bjorgúlfsson – musica: David Pór Jónsson – scenografia: Snorri Freyr Hilmarsson, Lucia Malyshko, Anna Maria Tomasdottir – montaggio: David Alexander Corno. interpreti e personaggi: Halldóra Geirhardosdóttir (Halla e Ása), Jóhann Suguroarson (Sveinbiorn), Juan Camillo Roman Estrada (Juan Camillo), Jorondur Ragnarsson (Baldvin). distribuzione: Teodora film – durata: un’ora e 41 minuti