di Massimo Lechi.
Un pastore, un meccanico e un bambino. I protagonisti di Zagros, In Between e Colorless Dream, ovvero la terna di film più forti della competizione curda dell’ultimo Duhok International Film Festival (20 – 27 ottobre 2018), sono tre figure umili e ferite. Tre volti di altrettanti racconti la cui valenza simbolica si è imposta al pubblico di quello che per la comunità cinematografica del Kurdistan – nella sua accezione geografica, culturale e politica più ampia – costituisce da sei anni l’appuntamento da non mancare, la vetrina più importante. L’unica vera occasione, in uno dei principali centri urbani della Regione Autonoma situata nell’Iraq settentrionale, a pochi chilometri da Mosul, per ricostruire sul grande schermo parte del complesso mosaico dell’identità curda.
Storie, le loro, radicate in una realtà fatta di lutti non elaborabili, tradizioni opprimenti, terrorismo e confusione linguistica. Un quadro dominato da forti contrasti interiori, familiari e sociali. E da una cultura di volta in volta da rivendicare con orgoglio, da subire con passività o da custodire semiclandestinamente tra monti rocciosi e case povere o fatiscenti.
Zagros di Sahim Omar Kalifa
Il titolo dell’opera prima di Sahim Omar Kalifa, regista curdo-iracheno da tempo trapiantato in Belgio, non si riferisce alla catena montuosa che attraversa Iran, Iraq e Turchia, bensì a un pastore come tanti. Padre e marito amorevole, figlio e nipote rispettoso del proprio clan di uomini barbuti e donne sottomesse e, di fatto, invisibili, Zagros (Feyyaz Duman, premio per la miglior interpretazione maschile) è un uomo onesto ma irrimediabilmente ingenuo, e dunque facilmente manipolabile. Quando la moglie (Halima Ilter) viene pubblicamente accusata di adulterio e scappa a Bruxelles con la loro figlia, egli decide di abbandonare parenti e villaggio ed entrare in Europa da clandestino. Al rischioso viaggio seguono la pacificazione e il difficile adattamento ai ritmi della città. Il fragile equilibrio della nuova vita in Occidente viene però presto fatto saltare dall’irruzione in scena dell’anziano e mefistofelico padre di Zagros (interpretato dal celebre cantante folk Brader Musiki), con tragiche conseguenze.
Levigato nella confezione e decisamente convenzionale nella costruzione drammaturgica, Zagros, che ha vinto tra gli applausi la Foglia d’oro come miglior titolo curdo, è un film tanto prevedibile quanto efficace. La prima parte descrittiva, girata in Grecia per esigenze di produzione, serve soprattutto a mostrare al pubblico la realtà arcaica di un Kurdistan di paesaggi brulli e pecore belanti, fuori dal tempo se non fosse per le uniformi dei guerriglieri del PKK (il Partito dei Lavoratori del Kurdistan), e vale come introduzione a quella assai più corposa a Bruxelles, in cui il volenteroso ma sempre tentennante protagonista riesce a mettere da parte sospetti e pregiudizi e a inserirsi faticosamente in una vita diversa, estranea alle regole e alle imposizioni tribali. La comparsa del vecchio patriarca, che pretende dal figlio il delitto d’onore per salvare il buon nome della famiglia, dà infine il via al terzo atto e innesca la tragedia.
Il pastore Zagros è dunque un Candido vittima della tradizione – incarnata minacciosamente dal padre padrone di turno. Un debole sulle cui spalle, in maniera piuttosto dimostrativa, il regista carica il perso del conflitto tra passato e presente, tra civiltà forse inconciliabili.
In Between (Di Navberê De) di Ali Kemal Çinar
Più originale e stimolante, da un punto di vista sia concettuale che cinematografico, l’ultimo film di Ali Kemal Çinar, cineasta quarantenne originario di Diyarbakir, città del sudest della Turchia a netta maggioranza curda, campione di un cinema satirico talmente low-budget da apparire quasi casalingo.
In Between, premiato dalla giuria FIPRESCI, è la storia paradossale di Osman (Osman Çinar, fratello del regista), un calvo meccanico curdo afflitto da una serie di disfunzioni cognitive e comportamentali che gli impediscono di aggiungere un po’ di felicità e di amore alla routine casa-officina di cui è prigioniero da sempre. Oltre a non poter fare due cose contemporaneamente (ascoltare una voce al telefono e prendere un appunto, per esempio, o bere un tè e chiacchierare con un amico), Osman capisce il dialetto curdo ma non è in grado di parlarlo e, viceversa, parla il turco ma non lo capisce. Una condizione logorante e completamente assurda, la sua, che gli ha reso la vita una deprimente alternanza di silenzi, imbarazzi e malintesi. Un giorno, dopo essere stato piantato dall’ennesima ragazza, viene indirizzato a uno strano centro per casi disperati come il suo, dove provare a imparare finalmente la lingua materna e vivere serenamente con il prossimo. Si profila, dopo anni di mortificazioni, una via d’uscita. Ma forse, nella società, un posto per Osman ancora non può esserci.
Lungi dal rappresentare semplicemente il calvario sentimentale di un anonimo sfigato poco multitasking, In Between è una breve (appena sessantacinque minuti il metraggio), intelligente e assai complessa riflessione sull’annosa questione dell’identità e del destino dei curdi di Turchia. Una riflessione tutta politica che, attraverso la felice combinazione dell’umorismo surreale delle situazioni e del realismo spoglio della messinscena, lega la possibilità di autodeterminazione del singolo alla lingua (la lingua come patria) e, alla fine, arriva a equiparare lo spaesamento di un popolo perennemente in mezzo al guado a una buffa ancorché dolorosissima – e incurabile – patologia, a una condizione di schizofrenia culturale e di impotenza comunicativa.
Il Kurdistan di Çinar è un limbo triste di cui è tuttavia possibile ridere senza troppi sensi di colpa.
Colorless Dream (Hewno Bêreng) di Mehmet Ali Konar
Protagonista di Colorless Dream, premio per la regia a Duhok a molti mesi dalla menzione speciale ricevuta al trentasettesimo Istanbul Film Festival, è invece Mirza (Civan Güney Tunç), un laconico bambino di città che vive nel cuore dell’Anatolia curda, in un grigio presente di rastrellamenti, agguati, vendette e attentati. La morte della madre lo ha fatto chiudere in se stesso, dandogli incubi e infondendogli la paura di perdere un’altra persona amata, e a nulla servono i maldestri sforzi dell’anziano padre e del fratello maggiore per ridestarlo dal torpore. L’incontro con l’estroverso Mir Ahmed (Bilal Bulut), di passaggio in casa sua, sembra però cambiare tutto. Mirza, lentamente, scopre di potersi fidare e ritrova il sorriso. Ma il destino di Mir Ahmed è segnato.
Mirza è insomma una vittima, una vittima innocente della guerra degli adulti. Ma anche un testimone, un osservatore impotente di un conflitto che sembra destinato a non avere fine (la circolarità della struttura narrativa, da questo punto di vista, è piuttosto esplicita). Attraverso di lui, attraverso la sua infelicità e la sua solitudine, Mehmet Ali Konar, nato a Bingöl nel 1982, sceglie di raccontare i sanguinosi anni Novanta della Turchia orientale, ricorrendo a una prospettiva non molto originale, certo, ma forse inevitabile data la natura dichiaratamente autobiografica del soggetto. Naturalismo, insistenza su piccoli quadri di vita quotidiana, dialoghi sommessi: Colorless Dream indulge per tutta la durata dei suoi settantotto minuti nel grigiore e nella mestizia, dando inoltre, allo spettatore più esperto, una sensazione di déjà-vu. Ma i primi piani del piccolo Civan Güney Tunç sono difficili da dimenticare e alcune sequenze, a cominciare dalla danza dell’aquila e dai ralenti con gli assassini incappucciati, hanno una forza innegabile. Resta, alla fine, l’impressione di un’opera sincera, onesta, che probabilmente lascerà un segno duraturo nella storia del cinema curdo.