di Aldo Viganò.
Abbandonata la tentazione letteraria evidenziata in Una vita, tratto dal romanzo di Guy de Maupassant, il francese Stéphane Brizé torna a raccontare la classe operaia con il volto di Vincent Lindon. Ma, a differenza di quanto accadeva nel precedente “La legge del mercato”, sposta ora il centro della sua attenzione dal singolo (le umiliazioni e le speranze di un cinquantenne rimasto disoccupato) alla lotta collettiva per mantenere il proprio posto di lavoro degli operai di una fabbrica, i cui nuovi proprietari hanno imposto la delocalizzazione.
In questo passaggio di prospettiva, il cinquantaduenne regista di Rennes sceglie anche di cambiare stile. Abbandona, infatti, i lunghi e dolenti piani sequenza che caratterizzavano quel suo film premiato a Cannes nel 2015 per puntare adesso sui ritmi concitati e sulle inquadrature ravvicinate che caratterizzano questo “In guerra”, dove si racconta, come in una testimonianza diretta del telegiornale, la lotta contro i padroni e le divisioni interne di quei 1100 operai alle prese con la decisione della nuova dirigenza tedesca di chiudere la loro fabbrica, perché questa, sebbene in attivo, non rientra più nei loro progetti produttivi.
L’argomento è certo di grande attualità e Brizé lo mette in scena con grande convinzione, ponendo Lindon al centro di un cast di attori in gran parte non professionisti, facendone il protagonista di una battaglia inevitabilmente votata al fallimento.
Concedendosi solo la pausa privata rappresentata dalla simbolica nascita del nipotino del protagonista, “In guerra” è un film interamente coniugato su quella lotta sindacale nell’età della globalizzazione. Ne nasce così una sfida realistica in stile Davide e Golia. Un duello che, pur svolgendosi sotto lo sguardo impotente dell’inviato del governo francese, non può avere altra soluzione che la sconfitta. Tanto che, assumendone su di sé tutto il peso, a Lindon non resta altra via d’uscita che quella del gesto estremo dell’autodistruzione.
C’era una volta la classe operaia, ora annientata dal freddo realismo delle leggi del mercato, che per salvare se stesso non esita ad azzerare anche l’essere umano. Così canta con convinzione Brizé, il quale nel corso della gestione del film sembra aggiungere anche: c’era una volta il cinema, ora fagocitato dal linguaggio televisivo e sepolto infine sotto la lapide di quelle immagini finali ormai prodotte solo dai telefonini.
Questo duplice discorso, però, s’intravvede appena tra i concitati fotogrammi di “In guerra”. Perché resta solo in sottofondo, in gran parte nascosto dalla forza cronachistica dell’assunto narrativo di un film che la gestisce con un’autentica passione. Passione che viene spinta da Brizé sino al limite retorico di un pessimismo integrale, pur compensato dalla metaforica nascita, anche questa inevitabilmente retorica nel contesto del discorso, di quel nipotino, solo al quale viene affidato un barlume di speranza nel futuro.
IN GUERRA
(En guerre, Francia 2018) regia: Stéphane Brizé – sceneggiatura: Stéphane Brizé, Olivier Gorce, Xavier Mathieu – fotografia: Eric Dumont – musica: Bertrand Blessing – costumi: Ann Dunsford – montaggio: Anne Klotz. interpreti e personaggi: Vincent Lyndon (Laurent Amédèo), Mélanie Rover (la sidacalista), Jacques Borderie (il direttore finanziario dello stabilimento), David Rey (il direttore finanziario), Olivier Lemaire (sidacalista), Isabelle Rufin (capo delle risorse umane), Bruno Bourthol (sidacalista), Sébastien Vamelle (sidacalista), Valérie Lamond (avvocato dei dipendenti). distribuzione: Academy Two – durata: un’ora e 45 minuti