di Aldo Viganò.
La prima parte del sesto lungometraggio firmato come regista dall’intellettuale siciliano Roberto Andò (Palermo, 1959) è interessante, aprendo un discorso in chiave thriller sul tema del doppio e ambientandolo nel mondo del cinema, dove nessuno è mai solamente quello che appare.
Ma, poi, poco alla volta, il discorso si affloscia e la narrazione diventa arzigogolata, mescolando troppi argomenti che si allargano sino a chiamare in causa il rapporto verità e finzione, ma anche quello tra Stato e mafia, e ad imboccare infine la via di un grottesco melodrammatico scarsamente accattivante.
Il motivo principale di tutto questo è quello consueto che contraddistingue gran parte del cinema italiano cosiddetto impegnato: cioè, il non credere che il cinema possa, nella propria autonomia linguistica, essere una rappresentazione del mondo, ma l’insistere nella convinzione che abbia sempre bisogno per avere senso del supporto letterario o ideologico-pedagogico; oppure, quanto meno, che il regista spieghi a chi le guarda il significato delle sue immagini.
Insomma, questo motivo sta proprio nel fatto che i primi a non credere in quello che stanno facendo sono proprio gli autori che lo fanno, questo cinema.
Peccato perché, come dicevo, la situazione di partenza sembrava indicare la strada verso una rielaborazione del cinema di “genere”; diverso comunque sia dalla pretenziosità dei film realizzati solo per entrare nei cartelloni dei festival, sia dalla banalità diffusa di quelli nati già con la prospettiva dell’ “usa e getta”.
In La storia senza nome, tutto ha inizio quando un personaggio misterioso, che si rivelerà poi essere un agente segreto in pensione (Renato Carpentieri), offre all’anonima segretaria di una casa di produzione cinematografica (Michaela Ramazzotti) una storia da raccontare, purché ciò avvenga nel più totale anonimato. Non si tarda a scoprire che lo sconosciuto sa tante altre cose dell’argomento di cui parla, come di colei cui si rivolge. Sa che da anni lei è autrice, in incognito, delle premiate sceneggiature di uno scrittore di successo (Alessandro Gassmann) da tempo ormai in crisi creativa. Sa che la madre di lei (Laura Morante) fa come la figlia un simile lavoro da “ghost-writer” per un rimbambito Ministro della Cultura dello Stato italiano (Renato Scarpa). Sa che la Mafia ha suoi infiltrati dovunque (nella casa di produzione come nel Governo nazionale) e che è la responsabile dell’ancòra oggi misterioso furto – veramente accaduto all’Oratorio di San Lorenzo a Palermo la notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969 – del dipinto di Caravaggio La Natività con i santo Lorenzo e Francesco d’Assisi.
Quella che lo sconosciuto (almeno sino a questo punto del film) racconta alla Ramazzotti, la quale la offre subito come soggetto inedito all’amato Gassmann, è la storia dell’omicidio di un critico d’arte inglese nei sotterranei di un parcheggio palermitano e del vano tentativo della polizia di scoprirne i colpevoli. Ne nasce così un racconto in cui nessuno è mai solamente ciò che appare. Un thriller che affascina per le sue risorse spettacolari il produttore (Antonio Catania), il quale lo affida subito a un regista di lingua inglese (Jerzy Skolimowski), con il risultato che la Mafia, preoccupata dalle verità contenute nel soggetto prontamente comunicatele dal suo uomo nella produzione (Gaetano Bruno), massacra di botte, sino a ridurlo in coma, il povero Gassmann per conoscere il finale e l’ispiratore di una storia che però egli non è proprio in grado di sapere.
La palla passa, quindi, nelle mani della Ramazzotti (e indirettamente di sua madre) che, guidata segretamente da Carpentieri, porta avanti un soggetto che suscita ben presto altre violente reazioni e che si sviluppa in un intrigo poliziesco, il quale avrebbe numerosi elementi di interesse se non fosse che il primo a mostrare di non crederci sia sempre più Roberto Andò, il quale ne sposta via via lo svolgimento verso il grottesco, inteso come mezzo privilegiato per accedere a quell’universo in cui la realtà si coniuga con la metafisica: proprio come accade nelle ultime opere del mai dimenticato Leonardo Sciascia, da sempre riconosciuto da Andò come sua guida e maestro.
Così facendo però, il regista palermitano, da sempre oscillante tra cinema e teatro, confonde l’unità stilistica del racconto, destituendolo di gran parte del suo originale interesse e lasciandolo di continuo basculare, nonostante tutta la buona volontà dei suoi pur bravi interpreti, tra cinema e letteratura. Con il privilegio, comunque, sempre più dichiarato per l’astrattezza narrativa, piuttosto che per la concretezza delle immagini che dovrebbero darle vita sullo schermo.
UNA STORIA SENZA NOME
(Italia, 2018) regia: Roberto Andò – soggetto e sceneggiatura: Roberto Andò, Angelo Pasquini, Giacomo Bendotti – fotografia: Maurizio Calvesi – musica: Marco Betta – scenografia: Giovanni Carluccio – costumi: Lina Merli Taviani – montaggio: Esmeralda Calabria. interpreti e personaggi: Micaela Ramazzotti (Valeria Tramonti), Alessandro Gassmann (Alessandro Pes), Renato Carpentieri (Alberto Rak), Laura Morante (Amalia Roberti, madre di Valeria), Jerzy Skolimowski (Jerzy Kunze, il regista), Antonio Catania (Vitelli, il produttore), Gaetano Bruno (Diego Spadaflora), Marco Foschi (Riccardo), Renato Scarpa (Onofri, Ministro della Cultura), Emanuele Salce (Presidente del Consiglio), Paolo Graziosi (Nemi, Ministro dell’Economia), Filippo Luna (Seminario), Michele Di Mauro (Augusto Trezzi), Silvia Calderoni (Agata). distribuzione: 01 Distribution – durata: un’ora e 50 minuti