Quattro pezzi difficili – Stato di salute del documentario italiano

di Guido Reverdito.

Chi volesse avere un quadro esaustivo dello stato di salute del cinema italiano per capire quali siano le tendenze produttive che al momento sembrano andare per la maggiore potrebbe essere accontentato in toto anche solo dando una veloce occhiata al calendario delle uscite nelle sale dei lungometraggi battenti bandiera nazionale a metà ottobre.

In un fine settimana che ha visto approdare dalle nostre parti la bellezza di ventidue titoli nuovi, a fronte di tre soli prodotti di pura finzione (l’impegnato Il banchiere anarchico che Giulio Base ha tratto dal romanzo omonimo di Pessoa, il non certo memorabile Non è vero ma ci credo con cui Stefano Anselmi ha cercato di trasferire sul grande schermo la comicità del duo Nunzio & Paolo, storici conduttori della televisione romana Magic TV, e La fuitina sbagliata, analogo ma non meglio riuscito esperimento di rendere cinematograficamente commestibili le gag televisive del duo palermitano Soldi spicci, star della rete dopo i successi a Zelig e Colorado), il botteghino ha registrato l’uscita di ben sei documentari, quattro dei quali accomunati dalla celebrazione a vario titolo di precise ricorrenze epocali e comunque tutti all’insegna di quello che una volta si era soliti definire «spirito di impegno civili».

Doveroso quindi soffermarsi sui quattro documentari che fanno un preciso riferimento ad accadimenti particolarmente significativi e destinati a segnare il corso degli eventi nella grande Storia del nostro paese (e non solo del nostro).

Esattamente ottant’anni fa il Regime mussoliniano si adeguava alla linea di feroce antisemitismo dettata dalla Germania nazista e promulgava una serie di vergognose disposizioni meglio note come «leggi sulla razza». Per ricordare e implicitamente suggerire un monito alla memoria come unico strumento di (ri)educazione delle generazioni più giovani, Giorgio Treves ha scritto e diretto 1938 – Diversi. Prodotto di stampo televisivo con finalità scopertamente didattiche, questo documentario asciutto e rigoroso ripercorre quella stagione di infamia nazionale alternando testimonianze dirette in prima persona di quanti subirono le immediate conseguenze della promulgazione e applicazione di quelle leggi a momenti in cui storici ed esperti di Diaspora e Shoah di casa nostra ricostruiscono dati alla mano le tappe di un viaggio nel delirio razzista del Fascismo propagato a macchia d’olio dalla grancassa propagandistica della macchina del consenso di massa. Finendo così con l’aggiungere un tassello fondamentale al percorso di rivisitazione del mito dell’italiano buono e del tedesco cattivo che per troppi anni ha condizionato la valutazione del reale impatto che la deriva antisemita ebbe nella fisionomia ideologica della dittatura mussoliniana e nel suo deragliamento verso forme di brutale persecuzione razziale contro cittadini italiani rei soltanto di appartenere alla comunità ebraica.

Necessario come continuano a essere tutti i moniti alla memoria fatti per immagini in un’epoca in cui il confine tra rimozione inconscia e revival programmatico di ideologie votate all’odio e alla sopraffazione della diversità si fa sempre più labile e difficile da discernere, il documentario di Giorgio Treves ha il merito di coniugare il rigore della ricostruzione scientifica all’impatto sferzante della testimonianza diretta, senza mai sbracare nella retorica del j’accuse a tesi ma puntando tutto sul potere quasi maieutico della memoria.

Agli anni in cui il Fascismo consolidava il proprio potere dopo averlo assunto nel pieno rispetto delle regole costituzionali ci riporta anche La morte legale, ovvero il documentario che Silvia Giulietti e Giotto Barbieri hanno dedicato al making of di Sacco e Vanzetti, il celebrato biopic dedicato nel 1971 da Giuliano Montaldo a una delle più cupe e tormentate vicende di caccia alle streghe razziali in cui la fobia per il diverso unita a un profondo senso di intolleranza portò al patibolo due poveri immigrati italiani usati come monito esemplare da un paese accortosi dopo mezzo secolo di accoglienza indiscriminata dei guasti potenziali di una politica delle braccia aperte che richiamava dal vecchio continente forza lavoro fresca per garantire il benessere a quelle stesse classi egemoni destinate poi a convertire il richiamo in rigetto infastidito.

Nel 2017, a 90 anni esatti dall’esecuzione capitale dei due anarchici e a 50 dalla riabilitazione ufficiale proclamata nel 1977 da Michael Dukakis, allora governatore del Massachusetts, il capolavoro di Giuliano Montaldo venne presentato alla festa del Cinema di Roma in versione restaurata in 4 K grazie alla sinergia tra Unidis Jolly Film, Cineteca di Bologna, Istituto Luce-Cinecittà e Rai Cinema. La morte legale nasce appunto come una sorta di pendant documentaristico a quell’operazione. Partendo dalla miniera di trecento foto che Enrico Appetito scattò durante le riprese del film (oggi parte dell’ugualmente ricchissimo «Archivio Storico Enrico Appetito» a Roma), il documentario ne ripercorre tanto la non sempre facile lavorazione quanto la ricezione da parte del pubblico dell’epoca. E lo fa usando molto materiale video d’archivio con testimonianze di Gian Maria Volonté e Riccardo Cucciolla (rispettivamente impegnati nei panni di Bartolomeo Sacco e Nicola Vanzetti), di Ennio Morricone (autore della colonna sonora e anche della musica della ballata Here’s to you che coi versi scritti da Joan Baez accompagnava i titoli di coda divenendo ben presto un inno universale alla libertà e alla difesa dei diritti umani), ma soprattutto lasciando che la voce di Giuliano Montaldo ripercorra oggi le fasi di lavorazione di un prodotto filmico destinato a diventare uno dei testi cardine della lotta contro il pregiudizio, l’intolleranza razziale e l’ingiustizia.

Se poi appare quasi pleonastico il rilevare come La morte legale ribadisca la stretta connessione tra quell’oscura vicenda di xenofobia portata alle estreme conseguenze e le insofferenze razziali che infiammano il nostro amaro presente, il documentario di Giulietti e Barbieri ha anche il merito non indifferente di sottolineare invece la distanza che c’è tra il nostro oggi immerso nel tritacarne insulso dei social media e quella stagione ormai remota in cui il cinema di impegno e denuncia civile aveva la forza di risvegliare le coscienze senza però dimenticare le ragioni del botteghino.

Con Ora e sempre riprendiamoci la vita di Silvano Agosti ci si sposta invece di mezzo secolo in avanti perché il periodo preso in esame è quel decennio cruciale compreso tra il 1968 e il 1978 che (come suggerisce Agosti stesso parlando fuori campo) «se in futuro ci sarà un qualche storico onesto […], sentirà come legittima la necessità di avvicinare quel periodo ai grandi eventi che hanno saputo cambiare il mondo come la rivoluzione francese e la rivoluzione russa». Battitore libero da sempre ai margini di ogni forma di mercificazione dell’immagine e fiero portabandiera di un cinema che fa dell’indipendenza espressiva e produttiva i suoi marchi di fabbrica inconfondibili, con Ora e sempre riprendiamoci la vita questo ultraottantenne diversamente giovane conferma una volta di più la sua vocazione a un cinema a chilometro zero capace però di affrontare con lo stesso spirito naïf anche argomenti all’apparenza grevi. Lo stesso approccio usato anche in questo documentario che rievoca col ritmo del sussidiario scolastico quei dieci anni che sconvolsero il mondo intero e l’Italia, ripercorrendone a ritroso gli accadimenti compresi tra gli scontri di Valle Giulia con la successiva nascita della contestazione studentesca e il lento degenerare verso il delirio dell’era del terrore culminata nell’assassinio di Aldo Moro dopo la lunga striscia di sangue seminata dalle cosiddette stragi di stato.

Cucendo insieme materiale d’archivio già visto in altri prodotti analoghi (vedasi, a titolo di esempio, Assalto al cielo di Francesco Munzi uscito lo scorso anno e puro prodotto di assemblaggio di spezzoni di girato) con immagini meno note, Agosti ripercorre la via crucis del decennio inframmezzando le varie tappe del percorso con interventi e testimonianze da parte di quanti – come per altro Agosti stesso – quell’èra la vissero in prima persona e ne parlano sia oggi a distanza di mezzo secolo con vari livelli di consapevolezza critica a posteriori che in documenti di repertorio nei quali sono ritratti in versioni giovanili a tratti difficili da far combaciare se giustapposte ai volti del tempo presente. Ed ecco quindi sfilare filosofi e scrittori quali Emanuele Severino, Massimo Cacciari, Clara Sereni e Nuto Revelli, artisti del calibro della coppia Fo/Rame, Alberto Grifi, Massimiliano Fuksas e Bernardo Bertolucci, ma soprattutto politici e attivisti come Oreste Scalzone, Giovanni Piperno, Pietro Valpreda, Mario Capanna e Bruno Trentin (protagonisti di spicco sul palcoscenico di quegli anni tumultuosi anche se spesso attestati su posizioni ideologiche molto distanti le une dalle altre).

L’intento di Agosti in questo documentario-summa presentato allo scorso Festival del cinema di Locarno è più che palese fin dalle prime battute: oggi che ogni ideologia sembra già morta e sepolta non appena cerca di (ri)trovare una propria credibilità se riesumata da qualche nostalgico refrattario allo tsunami del populismo che impera dalle nostre latitudini, guardare a quel decennio formidabile e a quella bella gioventù che si illuse di credere nelle sorti magnifiche e progressive di un futuro possibile è lanciare un monito alle generazioni di oggi: anche se quei moti di rivolta contro il Sistema portarono alla degenerazione del terrore, credere in un domani migliore aveva contribuito da una parte a svecchiare il mondo rendendolo più piccolo e a misura d’uomo, e dall’altra ad affrontare a viso aperto le storture di un Potere capace di arrivare a stragi di Stato pur di conservare i propri secolari privilegi.

La lezione del documentario di Silvano Agosti – in questo vicinissimo ai due prodotti esaminati in precedenza e apertamente schierato anche se dietro la macchina da presa – sta proprio in questa chiamata alle armi (intellettuali e ideologiche) di chi quegli anni non li ha potuti vivere per ragioni anagrafiche. Come il titolo stesso suggerisce, ora è tempo di riprendersi la vita, ricominciando da dove quei lontani ragazzi del sessantotto avevano interrotto il proprio discorso. Magari recependo la parte sana del messaggio ed evitando di rifare gli errori che tradussero i fermenti di rivolta in guerriglia a mano armata contro le istituzioni.

Anche se ci si sposta nello spazio e nel tempo, con La strada dei Samouni di Stefano Savona si rimane nello stesso àmbito del documentarismo d’impegno civile e di denuncia con precise ambizioni didascaliche. Premiato a Cannes di quest’anno con l’Oeil d’or in qualità di miglior documentario in concorso (riconoscimento che forse avrebbe meritato maggiore risonanza garantendo così una diversa visibilità nelle sale), La strada dei Samouni si presenta come un prodotto particolarmente originale sia dal punto di vista formale che di quello dei contenuti. Savona, palermitano classe 1969 con alle spalle già sette documentari (il più noto dei quali – Tahir, sulle manifestazioni di protesta contro Mubarak nell’omonima piazza del Cairo – ha fatto il giro del mondo per festival ed eventi vari riferibili a quei giorni di tumultuosi di rivolta), con questa sua ottava fatica è tornato nella striscia di Gaza a quasi dieci anni di distanza dagli atroci fatti di fine 2008. Ovvero quando il governo di Israele decise di bombardare quella striscia sottile di terra col pretesto di proteggere dalle minacce di Hamas la comunità agricola che vi era stanziata, ma finendo invece col perdere il controllo della situazione e seminando morte e devastazione tutt’intorno.

Quando a gennaio del 2009 i bombardieri israeliani terminarono la loro missione omicida, Savona fu uno dei pochissimi reporter in grado di approfittare di una falla nell’invalicabile dispositivo del confine tra la striscia di Gaza e l’Egitto riuscendo così a penetrare e documentare il risultato dei bombardamenti aerei e dell’invasione via terra dell’esercito israeliano. Il risultato di quella missione ad alto rischio fu il documentario Piombofuso uscito di lì a pochi mesi.

A quasi dieci anni distanza Savona è tornato in quella stessa terra martoriata e con La strada dei Samouni ha offerto al pubblico un’accorata fotografia dello stato delle cose in atto dopo il flagello di nove anni or sono. I Samouni sono una famiglia palestinese ventinove membri della quale persero la vita durante i raid dell’operazione «Piombo fuso». Alternando ricordi degli orrori passati (filtrati attraverso i diversi punti di vista delle parti in causa all’epoca senza rinunciare neppure a dare voce alla componente israeliana) a immagini che testimoniano la vita dell’oggi sospesa tra il monito delle macerie e la fiammella di una speranza che non vuole morire anche in mezzo alla disperazione più profonda, Savona racconta quel che resta di una comunità che si aggrappa all’illusione di un domani possibile per esorcizzare la memoria delle stragi. Una comunità ormai priva di genitori che non ostante tutto semina indizi di vita in mezzo all’incertezza di un presente eternamente in bilico tra ansie ataviche e isolamento imposto dall’alto: dopo aver sepolto i propri morti e in occasione dello sposalizio di uno dei pochi reduci in età adulta, Amal e i suoi fratelli tornano sul luogo del delitto, ritrovano segni di un passato cui aggrapparsi per non scivolare nell’abisso (soprattutto il grande albero di sicomoro su cui tutti si arrampicavano per gioco), ma rinnovano anche gesti e consuetudini del quotidiano capaci di regalare ancora l’illusione di poter resistere alla forza della devastazione.

Ma come riempire il buco inevitabile lasciato dall’assenza di documenti filmati relativi ai bombardamenti di quel tragico fine 2008? Ed è proprio a questo proposito che il lavoro di Savona si impone per una coraggiosa scelta narrativa arricchendo l’abito volutamente spoglio del racconto oggettivo con un’intuizione geniale: per raccontare ciò che non è narrabile in sé e per sé, le fasi del bombardamento dei caccia israeliani sono rievocate in una serie di disegni animati. Strisce in algido bianco e nero il cui impatto – forse proprio per lo iato drammatico che si viene a creare tra documentazione di denuncia e necessità diegetica – è forse ancora più violento di quanto non sarebbe stata la presenza di sequenze filmate o di rievocazioni fatte con voci fuori scena. A firmare questi bellissimi spezzoni animati è Simone Massi (coadiuvato da allievi di varie scuole di disegno animato), ovvero uno dei disegnatori italiani più originali e creativi degli ultimi anni, autore – tra le decine di corti premiati ovunque – non solo delle sigle animate delle ultime cinque edizioni del Festival di Venezia ma anche dei relativi poster di ogni singolo evento.

La strada dei Samouni, più lungo di quanto di solito non siano prodotti di questo tipo, si presenta quindi come una stratificazione complessa e funzionale di diversi livelli di narrato, a loro volta veicolate al pubblico tramite differenti approcci visuali: da una parte c’è l’oggettività tipicamente documentaristica con cui l’amaro presente di ciò che resta dei Samouni viene illustrato, mentre dall’altra i disegni animati in stop motion di Massi rievocano l’orrore del passato e una serie di sequenze non meno agghiaccianti fanno rivivere allo spettatore la fredda geometria della morte affidata dagli israeliani ai droni che pilotano il bombardamento mirando dall’alto sugli obiettivi umani da colpire e annientare. Una sovrapposizione di piani narrativi che finisce col dare vita a una sorta di sinfonia tripartita in cui i tre approcci formali al racconto documentaristico fanno da correlativo visuale agli stati d’animo costantemente presenti per tutti i 128 minuti del film di Savona. E cioè la disperazione retroattiva legata al mini-genocidio consumato, l’ansia di un presente su cui incombono minacciose le ombre di quello stesso passato, e la speranza (affidata soprattutto ai bambini, vero fulcro dell’intera operazione in quanto vittime primarie dell’insensatezza della guerra) in un futuro di pacificazione possibile dove la Vita possa continuare a fiorire. A discapito di quella Morte che sembra avere eletto a residenza queste terre.

 

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