di Guido Reverdito.
Con le uscite di questo fine settimana siamo in piena zona «Chi l’ha visto?». E i riferimenti alla nota e pluridecennale trasmissione di Rai3 sono del tutto casuali. Perché qui a essere scomparsi – o sarebbe più corretti dire mai comparsi – sono due dei più interessanti lungometraggi italiani in programmazione in questa prima parte della stagione 2018/2019 nonché promettenti esordi nella regia in lungo di due giovani autori dal profilo autoriale più che incoraggiante.
Guarda in alto di Fulvio Risuleo e In viaggio con Adele di Alessandro Capitani, oltre ad avere in comune la peculiarità tematica del genere di appartenenza (il road movie declinato in due forme molto originali) e quella dell’opera prima ma anche all’essere stati battezzati dalla Festa del Cinema di Roma, hanno anche condiviso un quarto e meno piacevole tratto di cuginanza. E cioè l’essere stati penalizzati da distribuzioni carenti con la conseguente limitazione di sale in cui il pubblico li ha potuti visionare.
Per Guarda in alto è andata anche peggio, visto che è uscito solo in un numero molto limitato di città italiane, mentre In viaggio con Adele – proiettato come pre-apertura all’edizione in corso della Festa del Cinema di Roma – ha avuto anche per questo epifanie distributive meno a macchia di leopardo, finendo però con l’essere comunque relegato in sale d’essai o comunque al di fuori del circuito dei cinema più tradizionali con un ovvio ostracismo dal baraccone dei multiplex.
Stessa sorte è toccata anche ad altri due dei cinque prodotti teoricamente in uscita nel corso del fine settimana. Se il tema rarefatto e meno commestibile che è al centro de L’abbandono di Ugo Frosi – ricostruzione di un oscuro episodio occorso in un convento di clausura di Prato a fine XVIII secolo – può far comprendere più facilmente le ragioni di questo tipo di esilio dalle sale, sarebbe stato invece un gesto coraggioso il promuovere Fuoricampo. Ovvero un documentario prodotto da studenti dell’università Roma 3 e incentrato su una squadra di calcio di terza categoria composta solo di richiedenti asilo in attesa del verdetto e proprio per questo impossibilitati a partecipare a pieno titolo al campionato dilettantistico.
In molte sale è invece uscito Nessuno come noi, titolo mucciniano ai confini appunto tra le fibrillazioni adolescenziali del primo Muccino e le melensaggini di Federico Moccia, che trasferisce sullo schermo l’ennesimo romanzetto di Luca Bianchini allestendo una specie di ronde amorosa a due livelli (adolescenziale e da crisi di mezza età) con genitori e figli ugualmente invischiati in affari di cuore sullo sfondo di una poco credibile Torino vintage di fine anni ’80.
Guarda in alto. Di Fulvio Risuleo e della sua poetica di surreale levità speriamo di sentirne parlare ancora a lungo in futuro. Perché se questo è il suo buongiorno creativo, allora c’è più che da ben sperare in un domani ricco di possibili alternative alle solite e trite minestrine riscaldate che la commedia italiana con vaghe ambizioni di indagine sociologica non fa che riproporre da anni spacciandole per rivisitazioni innovative di un genere sempreverde per eccellenza.
Di questo 26enne romano in effetti si era però già parlato nel 2015 quando il suo corto Varicella era stato premiato a Cannes come miglior documentario all’interno della Semaine de la Critique. E già allora si era intuito che quel riconoscimento avrebbe avuto un suo senso a livello di scommessa su potenziali sviluppi futuri di un cineasta allora soltanto in fieri (che però aveva già dalla sua un altro corto non passato inosservato e che nell’arco di un paio d’anni avrebbe sfornato una serie web documentaria girata a Parigi nonché due libri a fumetti).
Guarda in alto, prodotto da Revok Film con Rai Cinema, è un road movie (anche se sarebbe più corretto chiamarlo roof movie visto che si svolge interamente sui tetti di una parte di Roma) che ha però ben poco a che vedere con decine di prodotti affiliabili al sottogenere del dramedy da viaggio nelle sue varie forme e formule. E non solo per lo spunto di partenza, ma anche per una serie di scelte alquanto originali a livello di trattamento del materiale narrativo e di restituzione in immagini.
Al centro della vicenda c’è Teco, svogliato garzone di una panetteria romana che ha il volto di Giacomo Ferrara, emergente neostar del cinema di casa nostra divenuto popolarissimo nei panni dello Spadino di Suburra film e serie TV, ma anche nel sottovalutato Il permesso – 48 ore e qui quasi irriconoscibile per un taglio di capelli con banana alla Elvis e basettoni di prammatica.
A seguito di un bizzarro incidente aereo occorso durante la pausa sigaretta consumata sul tetto dello stabile dove si trova il negozio (e cioè lo schiantarsi al suolo di un gabbiamo meccanico), cercando di capire l’origine di quell’insolito accadimento, il ragazzo di cui non si sa nulla per l’intera durata del film inizia un viaggio che lo scolla progressivamente dalla realtà cui appartiene convertendolo in un’insolita versione di surfista dei tetti cui capitano a raffica una serie di incontri insoliti mentre sfarfalleggia su una Roma che nessun suo abitante potrebbe mai riconoscere proprio per l’insolita prospettiva scelta dal regista.
Non ostante i colleghi panettieri cerchino di convincerlo a tornare al banco, Teco si lascia facilmente risucchiare da quello che non può certo prevedere si trasformerà in un pellegrinaggio sui tetti della città. E come accade in ogni storia legata allo staccarsi da terra per avvicinarsi alle leggerezze del cielo, anche qui tutto ci mette un attimo ad ammantarsi di un velo sottile che toglie credibilità realistica a quanto succede imprimendo allo stesso tempo una svolta iperrealistica all’intera operazione.
Metà pierrot lunaire e metà nipotino del protagonista de Il barone rampante di Italo Calvino, Teco incontra una serie di personaggi surreali che in un altro contesto sembrerebbero solo il prodotto di una cattiva digestione di fiabe per adulti, ma che in questa zingarata lirica sui tetti di Roma diventano poesia allo stato puro che fa venire in mente certe passeggiate oniriche di Fellini (ci si consenta l’accostamento ardito), ma anche il cinema di maestri dello spaesamento narrativo quali Jean-Pierre Jeunet o Michel Gondry.
Ed ecco quindi sfilare delle suore che fanno volare droni a forma di gabbiano con cui si scambiano reliquie (uno dei quali è quello che ha fatto da motore immobile all’avventura di Teco), un gruppo di bambini perduti che sembrano epigoni dei ragazzi della via Pal, un anziano apicoltore dall’improbabile nome di Baobab e con la faccia di un quasi irriconoscibile Lou Castel, ma anche un’ardita aeronauta francese atterrata in mongolfiera, due gemelli nudisti, e un fabbricante di razzi da sparare nell’occhio della luna.
Una sbronza immaginifica che altrove farebbe subito pensare alla ricerca forzata di un’autorialità impossibile da raggiungere, ma che qui ha invece una sua perfetta ragione d’essere. Perché Risuleo (e il coautore della sceneggiatura Andrea Sorini) ambienta il suo safari in quella «terra di sopra» che è il mondo misterioso dei tetti delle case. Là dove tutto può succedere perché si è agli antipodi del mondo reale e ogni regola che intrappola gli umani perde forza lasciando spazio alla leggerezza del cielo che ognuno può illudersi di toccare con un dito.
Quello spazio di tutti e di nessuno dove il cinema non ha mai smesso di ambientare alcuni momenti memorabili della sua lunga storia (basti pensare alla lezione surreale di scassinamento di casseforti che Totò tiene alla sua armata Brancaleone ne I soliti ignoti o alla scena d’amore frustrato a base di qui pro quo a catena di cui sono protagonisti involontari Mastorianni e la Loren in Una giornata particolare), ma che può essere anche usato come invito simbolico ad affrancarsi dalle panie del «mondo di sotto», cercando nell’azzurro del cielo di trovare quell’ossigeno esistenziale che tanto manca. Con tutti i riferimenti del caso (come appare più che chiaro in Guarda in alto) al male di vivere dei giorni nostri in Italia.
Che Risuleo guardi in alto e anche in avanti non c’è dubbio. E lo dimostra non solo l’assoluta originalità del soggetto e le coraggiose scelte in materia di regia, ma anche la volontà di aprirsi ad orizzonti produttivi lontani dai confini angusti della penisola. Non è quindi un caso che il cast sia coloritamente internazionale con lo svedese Lou Castel accanto al ceco Ivan Franek, la francese Aurélia Poirier insieme allo spagnolo Emilio Gavira, e che la suggestiva colonna sonora sia stata scritta dal musicista sperimentale texano Sun Araw.
Penalizzato da qualche ingenuità fisiologica tipica delle opere prime (soprattutto nella sceneggiatura che scivola su dialoghi ridotti all’osso e a tratti fin troppo vicini a improvvisazioni a catena sul set), e anche da evidenti costrizioni produttive che però hanno permesso notevole libertà creativa al suo autore, Guarda in alto potrebbe essere il portatore sano di quella ventata di novità che troppe commediole di casa nostra inseguono invano finendo però col farsi solo il verso a vicenda.
E non resta che attendere, guardando in alto, per vedere se il futuro di questo giovane prospetto sarà ancora levità staccata da terra o se invece toccherà anche a lui adeguarsi all’andazzo non appena il carrozzone della mediocrità cercherà di mettere il sale sulla coda alla sua fresca vena creativa.
In viaggio con Adele. Di un viaggio bizzarro (ma questa volta saldamente ancorato a terra) si parla anche nell’altro interessante esordio del fine settimana. E cioè In viaggio con Adele, scritto da Nicola Guaglianone e diretto da Alessandro Capitani, che con Fulvio Risuleo ha in comune – oltre a tutto quanto già s’è detto – anche l’essersi fatto notare per un corto di successo. Ovvero il celebrato Bellissima che nel 2016 vinse il David di Donatello come miglior cortometraggio.
Siamo pure qui dalle parti del road movie (ma declinato all’italiana). E i protagonisti di questa scorrazzata in macchina nelle lande desolate della campagna foggiana non sono meno insoliti della varia umanità all’ablativo che il garzone svagato di Guarda in alto incontra sui tetti di Roma.
Da una parte c’è Aldo Leoni, attore di teatro con una lunga e brillante carriera alle spalle che, dopo anni di tentativi, ha finalmente la grande occasione della vita. E cioè un provino col regista transalpino Patrice Leconte (che appare in un breve cameo) per una versione al cinema del Cyrano de Bergerac, suo cavallo di battaglia sulle scene da anni. Provino per il quale molto ha brigato e non poco l’agente Carla (sua compagna episodica di letto con la faccia adeguatamente stanca e sciupata di un’Isabella Ferrari ormai abbonata a questi ruoli di donna in progressivo declino).
Ipocondriaco, antipatico e pieno di tic e manie (tra le quali spicca l’ossessione alimentare espressa da una vocazione nevrotica verso il veganismo), proprio in questo momento chiave della propria carriera Aldo deve affrontare un imprevisto destinato a sconvolgergli la vita. All’apprendere della dipartita di una sua vecchia fiamma, scopre infatti post mortem una paternità di cui non era mai stato messo al corrente. La defunta gli ha infatti lasciato in eredità una ragazzina con l’incarico di occuparsene a pieno regime.
E se si trattasse di una teenager come tante altre, pur essendo di per sé un problema non da poco, sarebbe forse anche una questione potenzialmente risolvibile. Il fatto è che Adele, questo il nome della ragazza, è un personaggio piuttosto sui generis. A voler essere cinici, la si dovrebbe descrivere come affetta dalla sindrome di Asperger, ovvero una sorta di pre-autismo che comunque scolla dalla realtà quanti ne sono affetti.
Se invece si preferisce un approccio soft e ci si allinea al modo scelto da Guaglianone per costruire il personaggio, allora è più corretto descriverla come una con la testa tra le nuvole o una “neuro diversa”, a sottolineare quella diversità biologica e comportamentale destinata a divenire il fulcro tematico intorno al quale ruota tutto l’impianto della sceneggiatura, a sua volta costruita sul classico incontro/scontro tra due estremi che finiscono per avvicinarsi progressivamente dopo iniziali e violenti urti.
Costantemente vestita con un pigiama rosa dotato di lunghe orecchie da coniglio, Adele è una bambina ingolfata nel corpo di un’adolescente. Priva di filtri morali e inibizioni di alcun tipo, non solo ha normali pulsioni legate all’età ma soprattutto dice e fa tutto quello che le passa per la testa inondando il mondo che la circonda di post-it rigorosamente rosa sui quali assegna nomi e aggettivi a ogni oggetto nuovo in cui le capita di incocciare (in un frenetico tentativo di appropriarsi con quelle scritte su sfondo rosa di quanto sfugge dal suo controllo per evidenti limiti nel rapportarsi con l’altro).
Quando Aldo scopre l’entità della grana che la sua ex fiamma gli ha lasciato in eredità, stressato com’è dal provino imminente che lo attende a Parigi (e dalla marcatura asfissiante della sua agente Carla, che non riesce a comprendere il progressivo scivolare dell’assistito verso quello che sarà un finale a sorpresa che non è bene anticipare), spera di potersene liberare quanto prima possibile parcheggiandola o dalla nonna o da un fantomatico fidanzato a Frosinone.
Ci vuole però poco a intuire che le cose non andranno affatto così. Col passare del tempo e mentre la strana coppia vaga per le terre desolate della Capitanata foggiana a bordo di una vecchia Saab 900 decappottabile che fa da correlativo oggettivo all’aura démodé che Aldo si porta dietro, le distanze si accorciano sempre di più. Fino a far sì che le due diversità a confronto trovino un terreno comune per coniugare il proprio reciproco disagio. E alla fine a salvare Adele non sarà Aldo ma l’esatto contrario.
Che la sceneggiatura sia opera di Nicola Guaglianone lo si capisce non appena Adele appare in scena alluvionandola col pesante carico della sua peculiarissima modalità di stare al mondo. Autore negli ultimi tre anni degli script di alcuni dei più originali prodotti italiani usciti nelle sale (basti pensare al pluripremiato Lo chiamavo Jeeg Robot, ma anche a Indivisibili, L’ora legale, Benedetta follia, Sono tornato e alla versione seriale per la TV di Suburra), questo 45enne sceneggiatore romano conferma anche qui la felicità della sua penna nel disegnare caratteri femminili affetti da qualche disturbo, anomalia, o disparità rispetto alla normalità presunta.
La sua Adele è ancora una volta una creatura fragile che sulle prime sembra vittima di un mondo crudele portato a mettere in disparte gli irregolari perché sprovvisti degli strumenti comportamentali necessari per adeguarsi al flusso della Vita «normale» e alle sue regole. Ma come già accadeva ai personaggi di Dasy e Viola in Indivisibili e ad Alessia in Lo chiamavano Jeeg Robot, anche qui è l’handicap presunto a fare da salvagente alla normalità supposta. In un finale memorabile (con Aurora che intona una struggente cover di Life on Mars di David Bowie) e dopo che il viaggio e molti micro-incidenti che lo costellano porta i due opposti ad avvicinarsi sempre di più, a cambiare è la vita di Aldo e non quella di Adele, autentico detonatore esistenziale che fa esplodere l’umanità in un uomo rimasto per anni congelato nella propria idiosincrasia ipocondriaca.
Scritto benissimo e sorretto da un dosaggio calibrato di bruschi colpi di scena che accelerano progressivamente questo percorso di avvicinamento reciproco, In viaggio con Adele ha anche il pregio di poter contare su un duo quanto mai azzeccato di interpreti. A 71 anni e con la bellezza di 150 film alle spalle, un’eccellenza del cinema di casa nostra troppo poco sfruttata in ruoli di ampio respiro può finalmente far (ri)vedere a tutti di cosa sia capace.
L’ultima volta che gli era capitato di potersi calare nel personaggio di un autentico mattatore in scena per la maggior parte della durata di un film risale addirittura al 1994 quando Enzo Monteleone gli offrì l’occasione di gigioneggiare a 360° senza guinzaglio ne La vera storia di Antonio H. L’assist offertogli da un esordiente Haber non se l’è fatto scappare. Il suo Aldo Leoni – che guarda caso sta per affrontare un provino per un ruolo da grande protagonista sullo schermo – è un concentrato esplosivo di iniezioni autobiografiche (i tic, le nevrosi, le ansie assortite e una rabbia da pugni in tasca che sembra metterlo sempre in colluttazione col resto del mondo) ed elementi peculiari di un personaggio destinato a imprimersi nella memoria dello spettatore.
Accanto a lui non sfigura Sara Serraiocco nei panni della stralunata Adele. Dopo aver esordito giovanissima in Salvo, in quattro anni di intensa attività questa esile presenza femminile dal carattere forte e deciso si è saputa ritagliare già una propria fisionomia attorale ben definita. Non deve quindi stupire l’averla vista all’opera in titoli quali Cloro, Non è un paese per giovani, L’Accabadora, La ragazza del mondo, Brutti e Cattivi, nei panni quasi mai agevoli di personaggi sempre ai margini della società e per questo difficili da interpretare. E la sua Adele lunatica e lunare non può che corroborare questa impressione di un futuro di successo garantito davanti a sé.