di Aldo Viganò.
Il quasi unanime plauso con cui è stata accolta l’uscita sugli schermi italiani di Un affare di famiglia (vincitore della Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes) mette in un certo imbarazzo chi come me si è profondamente annoiato alla sua visione. C’è sempre il sospetto di avervi assistito in un giorno sbagliato o, come mi ha suggerito un amico, di essere stato condizionato dal cattivo doppiaggio. Resta comunque il fatto che qualcosa non ha funzionato nel rapporto tra il film e il mio sguardo di spettatore. Che cosa? E perché?
Un primo motivo lo posso individuare nella ripetitiva lentezza con cui Kore’eda racconta la sua storia. Una storia di famiglia che, poco alla volta, si scopre essere mal assortita. Il padre e figlio, che solo di nome sono però tali, rubano al supermercato, giustificandosi con l’affermazione che “le cose non appartengono a nessuno finché sono sugli scaffali”. La nonna forse mantiene i parenti con la sua pensione, ma certamente arrotonda le sue entrate con soprusi e ricatti da capomafia. La figlia più grande si spoglia dietro al vetro di un night per guardoni e sembra contenta di farlo. Da parte sua, quella che tutti considerano la madre accetta volentieri di ospitare a casa una nuova bambina che il compagno ha aggregato alla loro vita collettiva, pur sapendo che è la maltrattata figlia di una coppia che la cerca in televisione. Insomma, si capisce ben presto che quella famiglia, pur conducendo una vita quotidiana simile a quella di molte altre, nasconde dentro di sé un latente malessere. Un marciume che la cinepresa di Kore’eda (regista nato a Tokyo cinquantasei anni fa e già autore di una ventina di film, tra i quali Father & Son e Ritratto di famiglia con tempesta) racconta con sguardo distaccato e oggettivante sino al punto di evitare con cura la funzione drammatizzante dei campo e controcampo e quella più esplicitamente narrativa delle inquadrature soggettive.
Tutto in questo film accade senza che lo spettatore sia messo nella condizione di potervi partecipare, almeno sul piano emotivo. Esiste tutto solo là, sullo schermo, lontano, senza che vi sia mai una qualsiasi condizione di coinvolgimento drammatico.
Anche quando il figlio, forse solo per liberarsi della nuova sorellina impostagli dal sedicente padre, fa in modo di essere arrestato dalla polizia, dando così inizio alla fine della “tranquillità” domestica, sembra che questo avvenga solo per caso. Allo stesso modo in cui senza veri colpevoli sembra che siano tutti gli avvenimenti che si scoprono in seguito: dalla sepoltura in giardino della nonna alla “liberazione” della bambina, sino alla rivelazione dell’omicidio del marito compiuto della padrona di casa insieme a colui che ora è il suo compagno di vita e il padre dichiarato dei suoi figli.
Partito come il ritratto (in stile Ozu) di un interno di famiglia, il film si trasforma così, poco a poco, in un thriller senza pathos sulla egocentrica stupidità umana. Con i protagonisti assolutamente incapaci di distinguere il bene da male, e quindi anche di prendere la pur minima coscienza delle proprie malefatte.
Ne sortisce così una situazione in qualche modo “chabroliana” (dal francese Claude Chabrol), ma assolutamente priva di quella tensione etica e narrativa che contraddistingue le opere migliori del regista di Un amico di famiglia o di Rosso nel buio. Qui, in Un affare di famiglia, tutto sembra essere già dato: come se si svolgesse in una realtà post-atomica. Con la conseguenza, appunto, di quella che dicevo essere la noia che accompagna lo svolgimento di un racconto contraddistinto da una programmatica monotonia cinematografica.
UN AFFARE DI FAMIGLIA
(Giappone, 2018) regia, sceneggiatura, montaggio: Hirokazu Kore’eda – fotografia: Ryūto Kondõ – musica: Haruomi Hosono – costumi: Kazuko Kurosawa. interpreti e personaggi: Lily Franky, Sakura Andõ (Nobuyo Shibata), Kirin Kiki (Hatsue Shibata), Mayu Matsuoka (Aki Shibata), Jyo Kairi (Shota Shibata), Miyu Sasaki (Yuri), Chizu Ikewaki (Miyabe Kie), Sõsuke Ikematsu (4 ban-san). distribuzione: BIM – durata: due ore e un minuto