di Juri Saitta.
Opera seconda di László Nemes – regista del pluripremiato “Il figlio di Saul” -, “Sunset” era uno dei titoli più attesi di Venezia 75 ed è risultato infine uno dei film più divisivi della Mostra. Infatti, una parte della critica l’ha considerato un lavoro confuso e manierista, mentre l’altra l’ha ritenuto un lungometraggio coerente e affascinante.
L’idea stilistica di fondo è molto simile a quella del film precedente: basata quasi esclusivamente sul pedinamento e sul primo piano del personaggio principale, la regia fornisce allo spettatore un campo visivo molto stretto e parziale, nel quale lo spazio attorno alla figura ripresa risulta alquanto limitato e confuso.
Una modalità espressiva tesa a trasmettere un senso di smarrimento e claustrofobia, che se nella pellicola d’esordio serviva a rappresentare il Lager come un girone infernale dai richiami danteschi, in questo secondo lavoro è funzionale mostrare una Budapest labirintica, tumultuosa e opprimente, specchio di una società in decadimento.
La vicenda è ambientata nella capitale ungherese del 1913 e vede come protagonista Irisz, una giovane donna giunta in città da Trieste per trovare lavoro in una cappelleria di lusso, un tempo di proprietà dei suoi genitori, ora in mano a un’altra gestione. Qui la ragazza scoprirà alcuni scottanti segreti di famiglia e verrà a contatto sia con un’aristocrazia decadente sia con un gruppo di ribelli intenti a ribaltare i rapporti di potere.
Ciò in una storia in realtà piuttosto complessa e intricata, talvolta di difficile comprensione, funzionale – proprio come la scelta formale sopra descritta – a ritrarre un Paese caotico e burrascoso dove convivono un’aristocrazia dispotica ma in declino e delle spinte di ribellione tanto violente quanto ideologicamente confuse. Insomma, qui Budapest diventa il riflesso di un Impero (quello austroungarico) che crollerà con la Grande Guerra, come viene sottolineato nella sequenza finale, non casualmente ambientata in una trincea che ricorda da vicino quella di “Orizzonti di gloria” di Stanley Kubrick. Qui, dunque, il tramonto del titolo è quello di una classe e di un sistema politico/sociale, tramonto che culminerà nel conflitto bellico ma i cui segni erano presenti già da prima.
Un’operazione concettuale, quella attuata da Nemes, non dissimile dall’idea portata avanti da Michael Haneke nel suo “Il nastro bianco”: se nella Palma d’Oro 2009 veniva mostrato quanto gli umori e l’educazione degli anni Dieci anticiparono e “favorirono” l’ascesa del nazismo, qui vengono raccontati i moti che – alla vigilia della Prima Guerra Mondiale – annunciarono e resero possibile il crollo di una società.
Tutto ciò raccontato dal punto di vista di Irisz, che – come il protagonista de “Il figlio di Saul” -, si fa sguardo su un Paese e su un’epoca storica, guidando e immergendo lo spettatore negli spazi labirintici e opprimenti della metropoli in cui si svolge la vicenda.
Un’immersione resa possibile anche dalla fotografia di Mátyás Erdély, magistrale nell’uso della luce, in quanto attenta a coglierne i più sottili mutamenti, non solo nel passaggio dall’interno all’esterno o dal giorno alla notte, ma anche nei singoli bagliori che filtrano dalle finestre o che emergono dalle lampade.
Questo in una pellicola ostica e potenzialmente respingente, che ha però il grande merito di possedere uno stile coerente e definito, un’analisi storica/sociale portata avanti tanto dalla narrazione quanto dalla regia e, infine, una raffinata cura estetica che rende il lavoro visivamente affascinante.
Il tutto con una sola vera e propria pecca: la già citata sequenza finale, che ribadisce in modo didascalico e non necessario un concetto già ampiamente espresso nel resto del film. Una scena di troppo che comunque non scalfisce la riuscita di un’opera che conferma la poetica e il talento di uno degli autori europei più interessanti dell’attuale panorama cinematografico.