di Aldo Viganò.
L’uscita quasi contemporanea di “La truffa di Logan” e di “Unsane” testimonia ancora una volta la natura schizofrenica, mai riappacificata, del cinema di Steven Soderbergh (Atlanta, 1963): regista di più di trenta film, di cui molti è stato anche produttore, sceneggiatore, montatore e direttore della fotografia.
Se “La truffa di Logan” racconta sulla base di una sceneggiatura brillante e con un cast corale la vicenda di una sgangherata rapina, facendo ricorso a tono e stile tali da far pensare che sarebbe stato un film migliore se diretto dai fratelli Coen; “Unsane” è un film dichiaratamente di “ricerca”, quasi “amatoriale”, girato in una settimana con l’iphone, senza molta preoccupazione per la coerenza narrativa, ma vivacizzato da un clima ansiogeno, che a tratti può ricordare quello evocato da certi film dell’ultimo John Carpenter.
Due film a loro modo curiosi e interessanti, anche se entrambi non completamente riusciti. Ma, comunque, due opere che testimoniano i fermenti autoriali di un regista ancora alla ricerca di un proprio posto nell’universo hollywoodiano: cioè, nel contesto di un cinema popolare nel quale opera con un occhio alla cassetta e l’altro alla sperimentazione linguistica. In fin dei conti, non facendo altro che portare avanti quella ambiguità dello sguardo che già s’intravvedeva nel primo lungometraggio che gli aprì le porte del successo internazionale, Sesso, bugie e videotape, girato a soli ventisei anni.
“Unsane” è un “horror” un po’ intellettuale che mescola l’atto di accusa nei confronti della organizzazione sanitaria statunitense, al tema femminista dell’ossessione che nasce dalla persecuzione sessuale.
E proprio da uno “stalker” è in fuga la protagonista di “Unsane”. Crede di essersene liberata, essendosi trasferita a migliaia di chilometri di distanza, dove ha intrapreso l’ascesa di donna in carriera; ma dai fantasmi interiori non ci si libera. Basta, infatti, un momento di debolezza psichica, la visita da una psichiatra di colore, un sistema sanitario corrotto, per finire rinchiusa in una casa di cura, dove inesorabilmente si è fatto assumere come infermiere proprio il suo persecutore.
Pedinata, seguita o preceduta, da lunghi carrelli con l’iphone in mano, la reclusa si trova ora in trappola. E nel raccontare i suoi sforzi per poterne uscire (reazioni violente, attesa dell’intervento di una polizia collusa, invocazione d’aiuto alla madre, complicità con un giornalista che indaga sulle malefatte dei sanitari), Soderbergh sembra divertirsi come un ragazzino con le nuove tecnologie delle immagini: ora giocando con la loro possibilità di deformare lo spazio e il tempo, ora finendo col dare solo l’impressione di prendere in giro lo spettatore.
Ciò che ne risulta è narrativamente discontinuo ed esteticamente certo discutibile, ma resta il fatto che a Soderbergh interessa, con evidenza, fare del cinema e sperimentarne nuove possibilità. Domani probabilmente tornerà alla pratica più tranquilla (e più commerciale) di film come gli “Ocean’s Eleven” (e seguenti) o “La truffa di Logan”. Per ora, però, non si può che essergli grati per questa sua continua ricerca linguistica. Anche se resta il sospetto che possa essere solo un’altra “furbata”, fine a se stessa.
UNSANE
(Unsane – USA – 2018) regia, fotografia e montaggio: Steven Soderbergh – sceneggiatura: Jonathan Bernstein e James Greer – scenografia: April Lasky – costumi: Susan Lyall. Interpreti e personaggi: Claire Foy (Sawyer Valentini), Joshua Leonard (David Strine), Jay Pharoah (Nate Hoffman), Juno Temple (Violet), Aimee Mullins (Ashley Brighterhouse), Amy Irving (Angela Valentini), Olly McKie (infermiera Boles), Matt Damon (detective Ferguson). distribuzione: 20th Century Fox – durata: un’ora e 37 minuti